Una casa. Il tempo che passa. I segni che restano. Questo è Le sorelle Macaluso, opera seconda di Emma Dante, presentato in Concorso a Venezia 77. Un film che viene dal teatro e che con lo spazio circoscritto dialoga, che attraverso quello costruisce e racconta, che in quello si muove, passando con convinzione per il cinema.
Una casa. Secondo le teorie storiche dell’abitare, lo spazio domestico è definito da una dinamica complessa tra forze centripete e forze centrifughe. Una tensione continua tra l’esteriorità e l’interiorità alle quali, in linea generale, si fanno corrispondere – rispettivamente – il maschile e il femminile. Lo spazio abitativo si configura quindi come uno spazio di mediazione in cui la donna è inserita mentre l’uomo ne viene accolto. O come dice Marguerite Duras, “la casa, è la casa di famiglia, serve a mettervi i bambini e gli uomini, per trattenerli in un posto fatto per loro, accogliere il loro smarrimento, distoglierli dallo spirito di avventura, di fuga, di cui sono dotati dall’origine dei tempi.”
Ma la casa delle sorelle Macaluso è un'altra cosa, non è una affare per maschi. È abitata solamente da donne, uno spazio totalmente femminile (gli uomini ne sono tenuti fuori o tutt’al più fugacemente ospitati, e con uno scopo preciso) dal quale non si esce mai davvero. Le forze che agiscono nella casa delle sorelle Macaluso sono essenzialmente centripete: da quello spazio si esce poco, per poco, raramente o mai, e necessariamente si è chiamati a tornarci. Lo sanno bene anche i piccioni, che per anni hanno consentito alle sorelle di mantenersi; piccioni affittati per le cerimonie che, finito il "lavoro", seguono senza esitazioni il tragitto per tornare a casa. E lì sempre ritornano. Anche diversi anni dopo essere stati “dismessi”, come attirati da una forza cosmica che non consente loro alternative.
Il tempo. Sempre. Perché anche il tempo – nella casa e nella vita delle sorelle Macaluso – ha un andamento proprio. È un tempo che scorre, imprecisato, quasi incalcolabile, seguendo una misura più interiore che oggettiva, più memoriale che reale. Scorre, ma non muta davvero le cose. Non le riscrive, non le cambia perché ogni cosa (persone comprese) non solamente ha una propria identità, ma anche un proprio posto nella casa. Una posizione che è un modo di essere, non tanto nel mondo, ma in quel mondo, che in fondo è l’unico in cui le cose – e le vite – delle sorelle Macaluso hanno un senso. Tutto nella casa si determina e si significa in funzione degli altri elementi che mettono in forma lo spazio. Sugli oggetti, sui mobili, sulla chincaglieria, ma anche sui corpi delle sorelle si deposita una patina che li differenzia in base agli accadimenti senza mutarne il senso. Come la carta da parati su cui restano indelebili le tracce di una vita, tutto sta sempre lì, in qualche modo necessario.
I segni. Resta lì Antonella, sempre bambina, sempre accanto allo specchio a guardare Pinuccia che si mette il rossetto e ad ammirarne la bellezza; resta lì Maria con il suo desiderio represso, i suoi passi di danza, il suo corpo nevrile e consumato; restano i piccioni sul tetto, i piatti del servizio buono anche dopo essere finiti in cocci, il comó, le chiavi sempre nello stesso vassoio svuota tasche. Restano le intemperanze di Lia e le sue letture, ma restano anche il corpo ingombrante di Katia e quello procace di Pinuccia, mai davvero convinte della possibilità di una reale pulsione verso l’esterno.
Le sorelle Macaluso sono un mondo e la loro casa è il teatro in cui quel mondo trova forma e vita. Una sorta di grembo materno dal quale si può uscire solo a patto di uno svuotamento totale. Solo con un trasloco, una definitiva dipartita, un bara calata dalla finestra. Guardata - finalmente - da fuori.