Rencensione di Eraserhead - La mente che cancella di David Lynch (Lodovico Stefanoni, Cineforum 212, 59-66).
Terminato nel 1976, dopo una lavorazione durata cinque anni sulla scorta dei finanziamenti a singhiozzo provenienti dall'American Film lnstitute e da altre fonti, trovate con fatica dall'autore, Eraserhead fa il suo esordio in una sala di Los Angeles. l «Cahiers du Cinema», in un articolo dedicato al culto di questo film, informano che l'opera di Lynch alla prima uscita riscosse un debole successo. Questo arrivò crescente da quando si iniziò a programmarla a mezzanotte in alcune sale di New York e della West Coast, continuando un'esperienza già avviata con El Topo di Jodorowsky e proseguita trionfalmente con The Rocky Horror Picture Show.
La stretta funzionalità di Eraserhead alle proiezioni della tarda nottata ebbe una clamorosa controprova nel1980 quando, a seguito del successo di critica e di pubblico ottenuto da Lynch con Elephant Man, il primo lungometraggio del regista venne ripresentato in un locale newyorchese in orario normale: fu un completo fallimento. Condannato a essere un midnight movie, il film afferma definitivamente la propria radicale estraneità al contesto cinematografico e alle sue pratiche. Già la lunghezza della realizzazione l'aveva posto al di fuori della dinamica domanda – offerta, a cui la produzione hollywoodiana, anche se povera, anche se indipendente, anche se concettualmente avanzata, di solito fa riferimento. Lo sbocco in un mercato imponderabile, caratterizzato da teniture a tempo indeterminato e da aspettative in gran parte extra-cinematografiche, sottrae il film al ciclo di sfruttamento del prodotto, lo rende un unico, eppure reinventabile a ogni successiva visione, in qualche modo un non-film: un “oggetto” (come il misterioso asteroide) alla deriva nelle notti insonni dei suoi cultori.
Film di mezzanotte: eco o rappresentazione?
Ciò che potrebbe differenziare un film di mezzanotte dagli altri è la sua riutilizzabilità: la maggior parte degli spettatori sono alla seconda o terza visione e non sono più soggetti alle sorprese del racconto cinematografico. Cade nel loro confronti Il fascino di una scoperta “dal buco della serratura”, fatta di rivelazioni successive e di continue modifiche nel rapporto fra ciò che è mostrato e ciò che si immagina o si pre-vede. È questa una condizione che si realizza nel completo distacco, così come è percepito dal pubblico, fra lo schermo e la sala. Si capta qualcosa che avviene “altrove” e di cui non si può aver certezza; il che trasmette, nella progressione conoscitiva, l'effetto di una successione.
Il film visto più volte viene recepito invece come totalità e l'interesse dello spettatore in tal caso può essere suscitato soltanto dalla possibilità di smontare e riutilizzare l'oggetto nella situazione sala, che diventa il vero luogo di definizione del film. l rituali collettivi scatenati anche a Milano da The Rocky Horror sono culminati in un inscenamento della vicenda (in parallelo con la proiezione) da parte di spettatori/attori, vestiti e atteggiati nell'identica maniera dei personaggi. Ma in questo sdoppiamento puramente imitativo, nella teatralizzazione (suggerita, non c'è dubbio, dalla struttura musical), il film ha terminato il suo percorso sotterraneo. In dialettica con suggestioni private e desideri inconsci, per approdare a una manifestazione goliardica. Le “creature della notte” sono state esorcizzate e il limbo- sessuale dei personaggi ricondotto, attraverso la mascherata davanti allo schermo, alla semplice esibizione di un trucco.
Va detto però che The Rocky Horror appartiene fin dall'inizio alla cultura camp- warholiana degli anni Sessanta, a un grottesco degradato, volutamente contrario a un'amplificazione fantastica e a una reinvenzione che non sia ripetizione di stereotipi. Eraserhead, quantunque attraversato dallo stesso orrore della procreazione e animato da una coppia di sposi ugualmente perbenista e candida, appartiene all'epoca dei punk, a una visione alienata, non mediabile, della realtà: non più colorì Kitsch e sfondi carosello, ma un universo metropolitano in bianco e nero, reso assoluto e nello stesso tempo atomizzato in dettagli che negano la possibilità di raffigurarsi un insieme, producendo l'effetto di un'apocalissi incombente. Macchinari da archeologia industriale e ponti in cemento armato, sbuffi di locomotive a vapore e sibili di jet: la città è un accumulo di reperti eterogenei, un'entità ormai senza tempo, tendente al caos originario.
Nella stanza di Henry i rumori, che risuonano ossessivi in lontananza o risultano abnormemente amplificati rispetto alla fonte d'emissione (il termosifone, il vaporizzatore), trasmettono la minaccia di un'esplosione, dì un annullamento dello spazio definito e quasi trattenuto dai deboli involucri delle pareti. Il fuori campo dì una città infinita, immanente, di una città – mostro che al regista è stata suggerita dal soggiorno di qualche anno a Filadelfia – sovrasta gli interni, che sono in lotta con il buio e la dissoluzione. La luce, “sensibile” nelle continue variazioni d'intensità, viene dalle lampade dell'arredo; non c'è illuminazione d'appoggio esterna. l profili delle cose e delle persone sono ritagliati in maniera deforme e precaria; nella penombra già s'intravedono segni di orribili trasformazioni (la pianta senza vaso che cresce sul comodino di Henry).
La permeabilità del dentro al fuori, della norma all'anormalità, della coscienza – luce all'inconscio – buio, cancella ogni confine virtuale dello sguardo o punto di vista esterno. Non c'è mai sorpresa o curiosità negli occhi dei personaggi; emblematico il modo di guardare “cieco” della vecchia autistica in cucina e del padre di Mary che ghigna beato davanti al pollo sanguinante, oppure quello involontariamente ebete di Henry che aspetta la chiusura delle porte dell'ascensore e di Mary che estrae una valigia incastrata sotto il letto. Anche quando è “presente”, lo sguardo è interno a ciò che accade: non esprime nulla, constata (un'eccezione è costituita dalla vicina, che ha un soprassalto alla vista del bambino-mostro mentre Henry la abbraccia, ma si tratta dell'unica figura “estranea” del film, la sola esente da sgradevolezze fisiche o turbe psichiche, quella da cui il protagonista in una scena successiva si sentirà guardato come un mostro, cioè visto dall'esterno).
E lo sguardo dello spettatore? Anche qui la prospettiva giudicante è negata per l'impossibilità di prender le distanze, separando un «dentro» e un «fuori», fissando cornici e confini alla finzione. Per questo Eraserhead non sarà mai esaurito dai suoi cultori nella messa in scena raddoppiata di The Rocky Horror; la sua azione sullo spettatore rimane subliminale, fluttuante, quella di un film che dialoga con l'inconscio funzionando da eco, non da rappresentazione di fantasmi: un'opera riutilizzabile in senso individuale, per un viaggio in sé stessi dalla posta incerta, non per un esorcismo collettivo.
La metafisica dell'orrido
Per un film fatto di libere associazioni e di violenti accostamenti diventa fin facile scomodare il surrealismo, mentre sul lato formale, per il forte contrasto di luci e l'uso non naturalistico del bianco e nero, la citazione d'obbligo è il cinema espressionista. Ma in entrambi i casi si tratta di riferimenti di comodo, di approssimazioni per difetto, che diventano addirittura fuorvianti se si tenta di collocare Eraserhead in una particolare tendenza, riconducendolo sui binari tranquilli della moderna cinefilia, quella del film “alla maniera di…”. Lynch non è un cinefilo – è lui stesso a dichiararlo – e il suo primo lungometraggio non catturerebbe lo spettatore, se non fosse in un certo senso senza riferimenti, un'opera-limite, una sfida alle consuetudini percettive che, per essere pienamente accettata, richiede un diverso modo di fruizione.
Se tuttavia un richiamo esterno va trovato, sarà bene cercarlo nella pittura, dalla quale il regista proviene (a stabilire la connessione tra il disegno e l'arte in movimento sono i cortometraggi d'animazione realizzati prima del '70, Alphabet e The Grandmother; procedimenti tecnici di quel cinema sono rintracciabili anche negli effetti speciali di Eraserhead). La pittura di Francis Bacon, esplicitamente citato da Lynch nelle interviste, pare il riferimento più probabile: la sfigurazione dell'immagine, il suo corrompersi sotto una luce impietosa e nello stravolgimento della prospettiva, la contemplazione della caduta dell'umano come disfacimento della sua rappresentazione e sedimentazione di forme mostruose, sono i tratti del pittore inglese che hanno esercitato un forte fascino sul regista. Accomuna entrambi la metafisica dell'orrido: la caduta non si lascia fissare in un'immagine negativa, è vertigine e trasformazione.
Il modello strutturale di Eraserhead è infatti quello di uno sprofondamento e di una continua mutazione. Il feto-spermatozoo che appare in apertura precipita nell'acqua; successivamente, moltiplicato in decine di esemplari, cade sul palcoscenico del sogno di Henry. Il protagonista viene risucchiato dal letto diventato stagno; la sua testa, staccata dal corpo, sprofonda nel pavimento e piomba dal cielo su una strada. La “materia” non più contenuta nelle (e dalle) forme canoniche, tende a perforare l'inquadratura o a debordarla, ormai espansa e dispersa. Henry, precipitato, diviene una "testa di gomma" (a proposito, quanto più pertinente al film è questa traduzione del titolo, invece di quella cervellotica e insensata de “la mente che cancella”); la gomma, a sua volta, si trasforma in pulviscolo stellare. Il bambino-mostro, una volta tagliata la garza, invade l'ambiente, quasi che la fasciatura potesse appena trattenerlo. Alla minaccia continua di esplosione l dispersione si contrappone la miniaturizzazione della realtà, che esprime il tentativo di controllarla, veicolandola in un sogno a occhi aperti che rimuova l'angoscia dell'horror vacui. Favolisticamente Henry riceve per posta un vermetto e lo custodisce in un armadio minuscolo (salvo che l'animaletto a un tratto si libera del contenitore e diventa enorme: un tubo e una bocca che non possono non ricordare il ripugnante bebè). Il palcoscenico dietro al radiatore, con la cantante dalle guance a forma di ovaia, condensa l'immagine mostruosa che Henry ha del rapporto sessuale e il desiderio di dar rappresentazione e addirittura possedere – ovvero cancellare – quel fantasma e la dissoluzione dell'io.
Convivere coi mostri: l'amorosa menzogna
Un amore per il teatro quello di Henry Spencer, che richiama il sogno più grande dell'uomo elefante nell'omonimo film di Lynch. John Merrick andrà infine a teatro come spettatore e come attore; dopo aver battuto le mani agli interpreti della commedia, verrà egli stesso applaudito dal pubblico. Il riconoscimento della normalità gli sarà concesso solo nel luogo della finzione; egli potrà Il raffigurarsi non soltanto come oggetto dello sguardo altrui (intrattenimento da baraccone o “malato” perennemente in osservazione da parte della società vittoriana), ma anche come soggetto di una visione propria, e per tale motivo sentirsi acclamato. L'uomo elefante deciderà di morire quella notte stessa (non prima però di aver completato una ricostruzione in miniatura degli edifici vedibili dalla finestra della sua camera); fisserà in quel modo il suo percorso al culmine di una rappresentazione e di un occultamento dei ruoli effettivi. E un momento di bellezza per il mostro che indirettamente denuncia le “apparenze” dell'epoca vittoriana: l'immagine di sé è interamente riflessa e assorbita dai rituali dell'integrazione sociale, l'auto-riconoscimento è evitato, quasi temuto (nella camera di John Merrick vengono infatti aboliti gli specchi).
In Eraserhead, dopo la partenza di Mary, Henry è costretto a riconoscersi come mostro (il sogno della testa sostituita e poi lo sguardo della vicina): la convivenza con l'altro si è trasformata in identificazione. E questo effetto specchio e tutte le possibili controreazioni che interessano a Lynch: nei suoi film – differentemente che in Alien e predecessori – il mostro si dà a vedere, è letteralmente messo a nudo, perché il pubblico sia costretto a sopportarne la visione fino all'imbarazzo, fino a non saper più come guardare, ovvero a porsi domande sulla propria identità. Il suo “teatro privato", dello spettatore, come quello di Henry, è sospeso sul vuoto; la certezza di poter guardare da distanza, da un protettivo “buco della serratura”, è definitivamente sospesa.
Come prospettiva resta so lo – ma disvelata – l'amorosa menzogna “vittoriana" o la dissoluzione dell'io. Henry si unisce alla donna-mostro: non più semplice guardante, entra nel sogno e si cancella. L'asteroide da cui osservare l pilotare la realtà, esplode e rotola via alla deriva.