Il mondo appeso a un manico di scopa

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«Fermati, tempo», ordina Ceasar Catilina, in bilico sul davanzale del suo ufficio all’ultimo piano del Chrysler Buiding in Megalopolis di Francis Ford Coppola. È sul finire di un anno imprecisato, ma collocabile verso la fine dei ‘50, che ha invece luogo (sempre un grattacielo newyorkese) la parabola di Norville Barnes, giovine e volenteroso inventore, capro espiatorio mancato, creatore di un paio di oggetti rotondi che hanno fatto la storia e l’immaginario del XX secolo. Mr. Hula Hoop di Joel e Ethan Coen ha la sua risoluzione nel corso di un Capodanno alquanto originale. Del film parlò Gualtiero De Marinis su «Cineforum» n. 335, giugno 1994. Nel frattempo, vogliate gradire i più amichevoli auguri di Buon 2026 da Norville, da Caesar, dal vecchio Moses e da tutti noi.

 

«Cineforum» n. 335, giugno 1994

 

Scheda

Mr. Hula Hoop di Joel e Ethan Coen

 

Gualtiero De Marinis

 

Franz/k - C'è una bella differenza tra Capra e Kafka. C'è una cappa di troppo nel nome (Franz/k) e una di meno nel cognome, anche se poi si pronuncia uguale. C'è un continente intero che li divide: l'Americ/ka. E finalmente c'è l'aggettivo derivato che per Kafka è piuttosto comune. Anche se in realtà sta proprio qui il guaio. Kafkiano è ormai un termine usurato, dislocato e inutilizzabile. È diventato sinonimo di incubo, di atmosfera oppressiva e incomprensibile. Al contrario di Capra che è sempre ilare, così dicono, anche se un po' finto.

C'è molto Kapra nell'ultimo film dei Coen perché, almeno in apparenza, è una favoletta, perché finisce bene, perché ci sono degli angeli in circolazione e perché ha delle discese ardite e delle risalite, come dice il poeta. Ma c'è anche molto Cafka nell'ultimo film dei Coen. C'è il livello zero delle industrie Hudsucker, con ritmi di lavoro disumani le architetture opprimenti e i regolamenti del tutto incomprensibili.

In tutto questo, è chiaro, non c'è nessuna contraddizione. Anche perché chi l'ha detto che Kafka era triste? I due aiutanti dell'agrimensore sono una perfetta coppia comica. Fanno salti, capriole, litigano, si rubano le battute, completano l'uno i discorsi dell'altro come fanno anche Qui, Quo, Qua, i membri del consiglio d’amministrazione della Hudsucker o i due tassisti pieni d'aria del coffee shop. E Kafka non era quello che s'era documentato sull’America a partire dalla biografia di Benjamin Franklin? Come dice Brautigan, «Kafka who said “I like the Americans because they are healthy and optimistic”».

E poi il Teatro Naturale d'Oklahoma, che conclude e non conclude Amerika, non sarà mica un episodio triste. Karl Rossmann, come Norville Barnes, si precipita a rispondere all'offerta di lavoro soprattutto perché «nessuna esperienza è richiesta». E appena arrivato fa l'incontro con l'angelo che è Fanny e che sta lì giusto per fare promotion e poi si perde. Così come del resto si perde il resto del libro. Non sarà che poi Rossmann, entrato all'ultimo livello (infatti nessuno crede che lui sia ingegnere), arrivi per un qualche caso direttamente in cima alla piramide? Anche soltanto come uomo di paglia, come “proxy”? Insomma non è che i Coen si sono messi in testa di finirlo questo maledetto libro?

Dargli un epilogo con tutti i crismi, una morale chiara, tanto chiara che vale anche il suo contrario, così da poter dar l'impressione alla fine di restare sospesi anche loro a due metri da terra, come se non lo volessero concludere questo film, come se arrivati al momento cruciale non trovassero altro di meglio che un manico di scopa per bloccare gli ingranaggi del tempo, proprio nell'attimo in cui non sembra più possibile o più lecito rilanciare, riaprire le possibilità alternative per raccontare un'altra storia, che magari è sempre la stessa, ma è quella del tale che saltò giù dal quarantacinquesimo piano, a patto che si conti il mezzanino.

Koen/Koan Mr. Hula Hoop è la storia di un coglione che per caso, anzi per l'astuzia idiota dei suoi capi, si vede catapultato al vertice di una florida ditta americana e, invece di provocarne la rovina, la rende ancor più florida. I Coen s'affidano alla leggerezza di Kapra e all'oscurità di Cafka proprio per nascondere il fatto che il loro film è illogico. E noi cullati da questa illusione truffati come dei creduloni (sucker), non pensiamo neppure per un attimo che la donna che ha dato origine al tutto, quella per cui Waring Hudsucker si va a stampare sull'asfalto, non è altro che la signora Mussburger, quella grassona insipida che cerca di parlare francese durante il party di Natale.

Ma il peggio è che più Norville è inconsistente, disutile, vanesio, più è dichiaratamente fuori dagli schemi e più la sua ingenuità funziona (mais c'est du Capra, ça!). Più i suoi onesti tentativi lo spingono in una direzione, più il caso lo trasporta dall'altra verso trionfi derisori e gloriosissime sconfitte (mais c'est du Kafka, ça!).

Quel che non si lascia ridurre alla logica è come faccia un perfetto imbecille, sbarcato da un autobus che viene da Muncie, Indiana (o da un piroscafo che proviene dall'Europa, fa lo stesso) a convincere tutti a realizzare l'idea alla quale ha lavorato per anni: un cerchio. È questo lo choc logico del film. Lo choc di tutti coloro a cui lui mostra con trepido orgoglio il disegno della sua nuova invenzione. Lo choc che solo Mussburger, un vero killer, un incubo dell'umanità, riesce a rimuovere grazie all'astuzia. Lui pensa: è così che manderemo a picco le azioni Hudsucker così da poterle ricomprare a due lire l'anno prossimo. Il suo guaio è che tutto salvo l'astuzia, la doppiezza, il calcolo della ragione serve a districarsi di fronte a un Koan.

Il Koan è quel che nello Zen fa le veci delle parabole, ma con più forza, col clamore di uno schiaffo o col suono del battito di una mano sola. «Sometimes it is like a riddle other times like a fable; and other times like nothing you've heard before», dice Hofstadter. «Qualcosa che non può essere ucciso con la definizione e con l'analisi», sostiene Alan Watts. Qualcosa che può produrre l'illuminazione. Norville tira fuori dalla scarpa il suo disegnino e, quando vede che gli altri non capiscono, ha pure l'accortezza di dargli una girata, come se cambiasse qualcosa. Il suo problema è che ha inventato il cerchio, che è un po' come inventare il filo per tagliare il burro. Quel che non sa è che lui è il maestro zen e gli altri sono tutti suoi allievi. Ma siccome è buono prova anche ad aiutarli e dice col sorriso timido di chi cerca di scusarsi per l'affronto: «You know… for kids».

Satori a New York - Norville Barnes è un angelo in forma comica. Così come è comica (e angelica) la sua tonta insistenza nel volere un martini nel beatnik bar, quello in cui Steve Buscemi continua a dire che ci son solo caffè o succhi di frutta, prima di telefonare ad Amy per toglierselo di torno. Il bar nel quale s'intravvedono manifesti di letture poetiche, giusto l'ultimo giorno dell'anno in cui Ginsberg scrive Ignu. Il bar che non sta neppure a piano terra, ma qualche metro più sotto e in un film tutto costruito sulla dialettica alto-basso, su quanti anni ci vogliano ad arrivare in cima e quanti secondi a ritornare giù, non ditemi che si tratta di un particolare secondario.

Checché ne dicano tutti coloro che pensano che Kapra sia un bigotto, un assertore della divina provvidenza, Norville Barnes non arriva all'ultimo piano perché è un predestinato, toccato dalla grazia che è salvifica. Checché ne dicano tutti coloro che pensano che Kafka sia un maniaco, allucinato dall'ineluttabilità e indecifrabilità del destino umano, Norville Barnes non raggiunge il top per un oscuro disegno di perdizione.

[…]

Sidsucker, Buzzsucker - «Ammetto che lo zen sia una forma di stupidità», disse Joan Hiashi «Esalta la virtù di essere semplice e credulone». Dick per la verità usa il termine “gullible”, ma la parola più comune è sucker. Il sucker è il fesso, la vittima predestinata dei grifter, dei borsaioli, dei venditori di isole esotiche e non segnate sulla carta. Never Give a Sucker an Even Break diceva un titolo di W.C. Fields. Non date mai a un fesso un’onesta opportunità. E invece a Norville la danno, lo fanno presidente, convinti che faccia disastri e lui, l'angelo idiota, quasi senza pensarci, anzi proprio perché non ci pensa, la sfrutta fino in fondo.

È chiaro allora che qui il vero sucker è Mussburger e che i Koen si divertono a rivoltare le carte. Mussburger che in un attimo di lucida follia si mette a giocare con i nomi, attività sconsigliata a chi è privo di fantasia e concepisce la vita come un sistema di strategie, anzi di piani. Ed è così che vengono fuori Mussucker, Hudburger e soprattutto Sidsucker, Sid è un fesso. E lo stesso capita a Buzz quando pensa di non aver bisogno di maestri e di esser diventato inventore. Buzz è il ragazzo dell'ascensore (come Karl Rossmann in Amerika). Buzz è mormorio, ronzio, telefonata, colpo di citofono. Ma è anche in qualche modo vox populi. «What's on buzz, tell me what's happening», cantano in Jesus Christ Superstar. Cosa c'è nell'aria, dimmi quel che sta accadendo. E quelli di «Variety» quando raccolgo voci da fonti non confermate attaccano con «Buzz says…».

Buzz dice barzellette, le racconta a tutti senza ritegno e senza timore perché lui ha predominio sulla parola e nessuno ha predominio su di lui. Cos'è che ci mette cinquant'anni ad arrivare in cima e trenta secondi a ritornare giù? Waring Hudsucker. Finché resta nella posizione del fool è del tutto intoccabile. Poi prende coscienza di sé, si fa cogliere dal delirio di onnipotenza, crede di poter consegnare il proprio nome agli annali del mondo. E allora, dopo lunga meditazione, va dal maestro zen e gli presenta la sua nuova invenzione: la cannuccia che si piega. E col nome spiega già tutto: Buzz-sucker.

Buzz dice anche un'altra battuta che non è possibile tradurre in italiano. Come mai il marciapiede è tutto adornato a festa (fully dressed, completamente vestito)? Perché sta indossando Hudsucker (wearing/Waring). In italiano viene sostituita con una qualche battuta sui liquidi, ma non è grave. Quel che è grave è che i nostri doppiatori insistano a pronunciare Waring come se fosse whoring che in inglese vuoi dire letteralmente far commercio del proprio corpo a scopo di lucro. Mentre invece wearing suona come “esaurirsi, consumarsi” e la differenza non è neppure comica. Magie del doppiaggio! Chissà quanti spettatori italiani hanno capito che la voce fuori campo dell'inizio è la stessa dell'uomo che sta dentro l'orologio e non quella classica, impersonale da accademia o da telefilm tipo «Ci sono dieci milioni di storie nella città nuda…». Nell'originale si capisce subito che lui è il vecchio Mosé ol'Moses, perché biascica le parole come un Negro. In italiano invece non si capisce nulla.

E poi lo so che il termine non si usa, che Negro è considerato unanimemente un dispregiativo, ma è questo il nome che Karl dichiara quando finalmente lo assumono nel Teatro Naturale di Oklahoma. Forse m'ero sbagliato prima. I Coen continuano Amerika all'insaputa di Franz/k, ma Karl Rossmann non è quel fesso arrivato da Muncie, Indiana, Karl ha cambiato pelle e per lavoro sta nascosto negli ingranaggi di un orologio a osservare e raccontare le storie del mondo. Dunque lo stesso che verso la fine pensa «Quest'uomo è morto o il mio orologio s'è fermato» (Groucho Marx). E allora ferma l'orologio e fa a botte con Aloysius, il suo diretto concorrente nello scrivere il nome di Dio.

Mu/Emu - In ogni caso se non è gnu è emu, dice Jennifer Jason Leigh. Ma è più probabile che sia MU, che è poi la risposta che dà il maestro Joshu quando gli chiedono se anche un cane possa avere la natura del Buddha. E MU è pure il teorema che non è possibile derivare all'interno del sistema MIU e quindi è la prova del teorema di incompletezza di Godel. Dunque una versione raffinata e più sintetica del vecchio “sgurgle”.

Inutile chledere ai Koen se conoscano i koan, se leggano Kafka, se amino Kapra. Anche perché la loro risposta sta lì davanti a noi in piena luce sulla K del camino come la lettera rubata. Come la lettera che il signor Green deve consegnare a Karl Rossmann, ma non prima di mezzanotte. Come la Blue Letter che è sempre stata lì nel grembiule da lavoro di Norville, quello che porta su la scritta Hudsucker e che non si può proprio dire che manchi al suo posto.

Certo che a nascere a Cleveland (bellissima città dicono in Stranger Than Paradise, senza esserci mai stati) a uno magari vengono in mente altri riferimenti e altre idee. A nascere dall'altra parte dell'oceano è impossibile non pensare a Kafka o a Musil (nessuno può chiamarsi impunemente Mussburger/Mossbrugger e pensare di farla in barba a noi europei). Se poi chiedete ai Coen chi dei due abbia ragione, io o quell'altro di Cleveland, la risposta è ovvia ed è MU.

I Coen sono dei cerebrali e questo è anche il loro guaio. È per questo che hanno un bisogno disperato di Capra. Dei loro vecchi film solo Barton Fink gli era uscito fuori senza spigoli, senza eccessi, accogliente e caldo come un forno crematorio. Se prendiamo per buona la distinzione tra Ethan (laurea in filosofia e mente letteraria) e Joel (scuola di cinema, addetto alle visioni), allora va detto che il punto debole è Joel. Le loro sceneggiature sono sempre dei capolavori di puntualità, le loro regie sono più faticose, cercano troppo spesso lo stupore.

Questo è un film tutto girato dall'alto in basso e viceversa. Tutto in plongée (tuffo dall'ultimo piano) e in contreplongée (right to the top). Guardate l'inquadratura dei ragazzini che scoprono l'uso dell’hula hoop: c'è la camera che quasi spazza per terra. Per tutto il film riusciamo a stare più in alto di Tim Robbins e più in basso di Jennifer Jason Leigh e la differenza in pollici non è poca. Hudsucker Proxy è verticale quanto una lastra di plexiglas, infrangibile e refrattario alla logica come un Koan, ma anche trasparente come una mise-en-scène di Kapra.

E dire che loro dovrebbero saperla più lunga, perché loro conoscono il segreto. Loro sanno che lo stupore non si provoca con qualche inquadratura impossibile o con qualche angolazione astrusa. Basta il disegno di un cerchio custodito in una scarpa. O una scatola vuota, se è per questo.