Uno degli aspetti forse meno noti di Robert Redford, che purtroppo ci ha lasciati lo scorso 16 settembre, è stato il suo amore per i cavalli. Un amore che risale alla sua infanzia, ma che ebbe modo di manifestarsi concretamente alla fine delle riprese di Il cavaliere elettrico (1979) di Sydney Pollack: dopo la lavorazione del film, nessuno sapeva che fare di Rising Star, l’equino a tutti gli effetti suo coprotagonista; Redford si fece avanti, lo acquistò e lo portò nel suo ranch nello Utah. Non solo. Nel corso delle sue iniziative come attivista ambientale, Redford si impegnerà parecchio anche per la loro protezione, dalla salvagardia dei cavalli selvaggi alla richiesta di messa al bando della macellazione equina. Da regista, tornerà sull’argomento con L’uomo che sussurrava ai cavalli (1998), uno dei suoi film più belli. Di Il cavaliere elettrico riproponiamo la scheda di Franco La Polla, da «Cineforum» n. 194, maggio 1980. Il cavallo, diceva Ben Jonson, è poesia in movimento.
Già, il cavallo dove lo mettiamo? In una sala per maratone di danza nel 1932 o magari sul palcoscenico di un night di Las Vegas insieme a un cowboy dal costume tempestato di piccole luci, se intendiamo ucciderlo; in un prato selvaggio a correre libero se invece lo vogliamo ancora in vita. La scelta è ovvia. Ma qualcuno i cavalli li vuole uccisi. E non per semplice sete di denaro, non per sfruttare pubblicitariamente un nome e una fama. Il cavallo non è soltanto un mezzo, è un pericolo. È la negazione di un'etica, il termine oppositivo di una concezione del mondo. È persino un animale intero, un' incarnazione dell'inconscio, un simbolo di liberazione della potenza sessuale (da Jung a Loeffler-Delachaux). Da qualsiasi parte lo guardiamo, è la cattiva coscienza della Cultura in quanto opposta alla Natura, di un'oggettività tecnologica che si pone come assoluta. Il Cavallo è l'Uomo, ne incarna volontà e libertà in un sistema di valori predisposto e implacabile. È l’istinto dello spazio contro l'artificiosità del prodotto. L'oggetto tecnologico esiste, il cavallo è.
Come in Non si uccidono cosi anche i cavalli? anche qui l'apertura mostra un prato su cui corre libero un cavallo. È un Eden senza tempo, una mitica fusione di vita animale e vegetale, di movimento e paesaggio: non ha un prima nè un poi, niente permette di localizzarlo cronologicamente, la scena è senza età. O meglio, la sua età è quella di un mondo ignaro dell'esistenza di un soggetto in quanto opposto a un oggetto: in questo mondo nessuno “pensa, dunque è”. In questo mondo nulla modifica nulla. È davvero ancora possibile un mondo del genere? Il Capitale non si pone forse come sistema totalizzante, come Essere onnivoro che ingloba anche ciò che apparentemente gli si oppone?
Il problema è tutto qui, e non è un problema da poco. Se c’è un tema – a parte quello del Tempo e dell’Amore – che ossessiona il cinema di Pollack, questo è il tema dello Spettacolo. E non penso – come è ovvio – solo a Non si uccidono così anche i cavalli?, ma anche a Un attimo una vita, Come eravamo e in fondo a tutta la concezione problematicamente “spettacolare” della sua opera. Si tratta di un punto fondamentale per una comprensione del suo cinema in generale e di Il cavaliere elettrico in particolare. Sonny, infatti, ci è presentato immediatamente come uomo di spettacolo. Campione di rodeo, dopo l'incidente (stupenda la sequenza muta – col solo sottofondo musicale – delle lastre e del ritiro dalle arene) cambia un sistema di spettacolo con un altro. Vale a dire, Pollack non ci mostra una sua dimensione privata (l’unica cui allude è un fallimento: il rapporto con la moglie da cui Sonny è separato), qualunque spazio del protagonista è sempre pubblico, qualunque sua azione si perde nel gran mare di un mondo “spettacolarizzato”. La differenza sta nel rapporto del soggetto col sistema specifico. Sonny è un cowboy da rodeo, si sente tale e vuole essere tale. Da un certo momento della sua vita in poi egli non può più esserlo. Ecco allora che egli cambia sistema di spettacolo, rivelandosi però incapace di adeguarsi a esso. Se non si comprende questo, tutto il film ne esce travisato.
Il punto, insomma, è: se la vita è comunque vissuta, sub specie theatri, l’importante è il tipo di dramma in cui si recita, poiché è quello a condizionare il nostro ruolo, la nostra parte. Come cowboy da rodeo Sonny funziona benissimo, è un campione, si è fatto una fama nazionale: in poche parole, il suo personaggio si identifica con la sua persona, il personaggio e l'interprete coincidono. Desolato assunto di partenza, che getta una luce pessimistica sull'opera sin dall'inizio. La capacità del singolo, il suo riscatto, fino a questo momento, sta nel rintracciare dei valori all’interno della propria parte. Nel leggere la natura nella cultura. Sogno assurdo, s’intende, ma sufficiente – e comunque necessario – a permetterei di vivere. La liberazione di Rising Star, quindi, non può essere semplicisticamente letta come una metafora dell'impossibile libertà di Sonny (impossibile perché per ragioni fisiche egli non può permettersi di tornare al rodeo), dal momento che il rodeo non è per Sonny la libertà. La liberazione di Rising Star è solo quello che è: la liberazione di un animale in seno allo spazio che gli compete, che solo a lui – in quanto animale – può competere.
Tra i due poli dello scheletro di Sonny che intravediamo nelle lastre dei titoli di testa e dello scheletro vagamente sinistro rappresentato dalla sua figura adornata di luci che cavalca in campo lungo durante gli spettacoli notturni si svolge, si muove il dramma di un'identità irrimediabilmente perduta. Da questo punto di vista Il cavaliere elettrico è un passo avanti rispetto a film come I tre giorni del Condor e Un attimo una vita. Fra scheletro interno e scheletro esterno si agita la consapevolezza drammatica di un ' identità impossibile, che si accontenta di recitare bene la propria parte finché ne è fisicamente in grado e che poi si ribella non tanto al nuovo ruolo di ad-man, ma a ciò che vorrebbe limitare anche chi (Rising Star) ha invece ancora una chance di identità e di libertà.
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Il cavaliere elettrico è un prisma: ha anche altre facce. Una in particolare. Può anche darsi che sia la miglior commedia romantica di questi ultimi anni, come ha scritto un noto critico americano, ma non c'è dubbio che sia in fondo anche un'opera altamente allusiva, che fra le sue pieghe nasconda una cifra segreta eppure leggibilissima, la quale rimanda – come usa nel cinema americano di questi anni – al cinema stesso. In effetti Il cavaliere elettrico è anche un western: di quelli moderni, anzi, contemporanei. Il cinema americano dei 70 ne è pieno, da Monty Walsh, un uomo duro a morire di William Fraker a Per una manciata di soldi… di Stuart Rosenberg, per citarne solo due fra i migliori.
Ma qui la componente western non è tale solo perché la pellicola ci mostra la sua versione di quel che oggi è il West. E nemmeno perché, dopotutto, Pollack – a una lettura superficiale – sembra celebrare valori cari a quel cinema (e tanto meno perché ne canta la morte). Che Sonny sia un cowboy vicino alla vecchia maniera, e non solo un campione da rodeo, cominciamo a intuirlo quando dimostra una conoscenza profonda dei cavalli (cfr. la metaforica denuncia del rapporto fra droga e sterilità, l'occhiata professionale al garretto, eccetera). Ma dopotutto, questo potrebbe essere solo la conseguenza della sua preparazione professionale. Basta però che il protagonista si avventuri solitario fra rocce e vegetazione di Nevada e Utah ed ecco che il suo ruolo “tradizionale”, la sua stretta parentela con i maggiori eroi del genere prorompe. La prima volta che lo vediamo dopo la fuga dal teatro la sua testa emerge da dietro una roccia (in modo, fra l'altro, simile a Jeremiah Johnson nell'omonimo film: da noi, Corvo rosso, non avrai il mio scalpo) come cento vagabondi delle praterie. Da quel momento Sonny compie una serie di gesti, si produce in una serie di affermazioni degne di un eroe western classico: spegne il fuoco con una cuccuma del caffè, distingue ad occhio una pianta velenosa (fra l'altro, in un contesto “pedagogico” nei confronti di Hallie: quante lezioni di vita western, nel cinema americano, fra l'adulto esperto e il giovane principiante! Di più: lo stesso accadeva in Joe Bass l'implacabile fra il cacciatore Lancaster e il negro colto Davis, e in un contesto estremamente didascalico…). Del resto, anche il secondo incontro fra Sonny e la giornalista riveste tutti i crismi retorici dell'imboscata, o quanto meno del territorio violato e di una presenza locale che lo permea.
Pollack, insomma, sta “riproducendo” alcuni classici tòpoi del western adattandoli a un film e a un contesto decisamente contemporaneo. L'operazione è esattamente inversa a quella, per esempio, dei film di Fraker e Rosenberg: il primo denunciava l’impossibilità di sopravvivenza di quegli stessi tòpoi («The Good Times Are Comin’», cantava ironicamente Mama Cass nello sfondo), il secondo la loro assenza, ironizzando su chi avrebbe anche volentieri tentato di farli rivivere, ma non sapeva nemmeno da dove incominciare.
«Ci siamo perduti?», domanda Hallie «Perduti? No!», risponde quasi meravigliata questa moderna versione di John Wayne al suo non meno adattato Jeffrey Hunter. Pollack, insomma, sta mimando un western perché l'avventura di chi esce (letteralmente) dal teatro sociale del Capitale, in America, non può non avvenire in termini di western (specie se chi fugge è un cowboy con un cavallo). Ma mimare un western vuol dire farlo in qualche modo rivivere, ripensarlo in quel che lo caratterizzava, anche (o forse addirittura soltanto) nei dettagli. A differenza di tutti coloro che in questi anni hanno rivisitato il genere western con l'intento di dimostrarne l’estinzione (quale che ne fosse per loro la ragione), Pollack gira l'unico western possibile alla fine degli anni 70: quello in cui l'Ovest è finito nei suoi termini di rappresentazione “storica” e si presenta come corpus retorico da utilizzare oppositivamente ai valori, alle istanze della Cultura. L'Ovest di Pollack – a differenza di quello del western tradizionale – è qui non momento, magari contrastatissimo, di civilizzazione (si pensi a John Ford), ma vera e propria nostalgia. È un Ovest della mente e del cuore, non della tradizione cinematografica, e men che meno storica (col particolare importantissimo che per innescare il meccanismo nostalgico Pollack si avvale di momenti retorici del western hollywoodiano classico: in altre parole, la sua verità passa attraverso un percorso di immaginario).
Questo “gioco” cinematografico trova ulteriore conferma nelle clausole stile “nouvelle vague” che lacerano la creazione dell'universo fantastico del film. Alludo, soprattutto, alla scena in cui nella hall del Caesars Palace Hallie (ma è meglio dire Jane Fonda) incontra un uomo anonimo, interpretato dallo stesso regista, che incrociandola le chiede: «Ci siamo conosciuti a New York, si ricorda?» (e lei risponde con un humour pari alla sua indifferenza: «E ci siamo piaciuti?»). Pollack, del resto, compare nel film anche come silenzioso giocatore di pin-ball (il nostro flipper). Ancora: quando Sonny dice a Hallie «Lei ha del fegato», la ragazza risponde, «È un dono di famiglia».
Battuta anonima e insignificante se la leggiamo all'interno del sistema fornito dal testo filmico, ma altamente significante se la leggiamo all' interno del testo cinematografico, se, cioè, a pronunciarla non è Hallie ma Jane Fonda (il riferimento familiare è, naturalmente, ai vari personaggi di “fegato” interpretati da Henry Fonda, suo padre, soprattutto nei western da lui girati, da La più grande avventura a Sfida infernale). Pollack ammicca dietro la macchina da presa per smontare intenzionalmente, programmaticamente il sistema autonomo fornito dal film: questo non è un film inteso come opera staccata da chi l’ha concepita e creata, ma un momento personale nella storia autoriale del suo regista, il quale intende evidenziarlo come oggetto che sin dall'inizio instaura con lui (e col cinema) un rapporto costante e ineliminabile. Pollack è il film, e il film non può essere scisso da quel grande, dinamico fenomeno che è il cinema (quantomeno, quello americano). Lo spettacolo rimane spettacolo, ma a differenza del passato, ce ne rendiamo ben conto. Non ci lasciamo trasportare dalla sua carica di immaginario, viviamo epicamente la sua costruzione e la sua significazione.
La verità sta sempre altrove, dunque. Ci si aspetta l'inno nazionale, ma ascoltiamo America the Beautiful (fra l'altro, di un lirismo più adeguato alla scena di quanto non lo sarebbe stata l'epicità del brano di Francis Scott Key), i monti sullo sfondo del cammino dei due sembrano in bianco e nero in un film letteralmente fatto di colore. La classica figura circolare che domina da sempre il cinema di Pollack e che ritroviamo nella scena finale nei trecentosessanta gradi d'elicottero attorno a Sonny in campo lunghissimo sulla strada (vera e propria ripetizione di una scena, allora altamente innovativa, in Questa ragazza è di tutti) è vero che indica la solitudine liberamente scelta del protagonista, l'anonimato in contrasto con la fama abbandonata, ma è anche vero che ci parla, proprio per questo, dell'impossibilità di una vittoria che invece l'uomo sembrerebbe avere ottenuto.
L'umanesimo di Pollack è attento, cosciente di tutti i trabocchetti inevitabili per chi fa una scelta cosi inusitata nel cinema americano contemporaneo. L'incertezza su come andrà a finire la storia di Joe Turner nel freeze di chiusura di l tre giorni del Condor diviene qui sicurezza della limitata portata politica della scelta di Sonny, ma anche sua certezza morale. Forse nessun cowboy nell'intero cinema americano ha mai avuto tanto coraggio senza nemmeno bisogno di sparare un solo colpo di pistola.