Il talento di Marianne

archives top image

All’ultima Mostra del Cinema di Venezia è stato presentato il documentario su Marianne Faithfull Broken English di Jayne Forsyth e Jane Pollard. Cantante, musa e coautrice di alcuni dei successi dei Rolling Stones, divenuta a ragione una delle figure più rappresentative della Swinging London anni 60, Marianne è stata anche attrice di un certo talento. La ricordiamo, al fianco di Alain Delon, nel torbido Nuda sotto la pelle (1968) di Jack Clayton, sensibile e tragica Ofelia nell’Hamlet (1969) di Tony Richardson, autorevole Maria Teresa d’Austria nel più recente Maria Antonietta (2006) di Sofia Coppola. E soprattutto, nei panni dimessi della soave casalinga inglese che si reinventa un mestiere, in Irina Palm – Il talento di una donna inglese (2007) di Sam Garbaski, di cui riproponiamo la recensione a firma Roberto Chiesi pubblicata su «Cineforum» n. 471, gennaio/febbraio 2008.

 

«Cineforum» n. 471, gennaio/febbraio 2008

 

Scheda Irina Palm – Il talento di una donna inglese

La fiaba della mano fatata

 

Roberto Chiesi

 

Come accade talvolta ai progetti di film che in seguito si riveleranno dei successi commerciali, nessuno voleva produrre Irina Palm di Sam Garbarski. Il soggetto è stato ideato oltre sei anni fa dal romanziere, drammaturgo e sceneggiatore belga-iraniano Philippe Blasband, collaboratore abituale di Frédéric Fonteyne (Una relazione privata, La donna di Gilles), nonché regista di tre film fra il 2002 e il 2007 (in Italia è uscito solo l’interessante e un po’ alambiccato noir Un onesto trafficante, 2002, con una delle ultime interpretazioni di Philippe Noiret). Blasband aveva già scritto i primi cortometraggi di Garbarski e il suo primo lungometraggio, Le tango des Rashevski. La storia di Irina Palm originariamente si sarebbe dovuta svolgere in Belgio, nei dintorni della Gare du Nord di Bruxelles, già con l’accordo di Miki Manojlovic per la parte del proprietario del “Sexy World”. Ma il film si è potuto realizzare soltanto quando è scattato l’interesse della produttrice inglese Christine Alderson, che però ha chiesto un’ambientazione britannica. Così la storia è stata adattata al Regno Unito con l’apporto di uno sceneggiatore inglese, Martin Herron.

Garbarski non è un giovane regista (ha sessant’anni) e, come Blasband, ha origini eterogenee (nato a Planegg, in Baviera, è di famiglia polacca e ha la nazionalità belga). Non proviene dal mondo del cinema ma dalla pubblicità: infatti, artefice dell’agenzia Garbarski Euro Rscg, ha realizzato decine e decine di spot, per poi dedicarsi alla regia di cortometraggi dalla fine degli anni 90. I suoi due primi corti, La Dinde e La vie, la mort & le foot (2000), erano ispirati da un senso dell’umorismo tipicamente ebraico, mentre il terzo Joyeux Noël, Rachid (2000), raccontava una storia di amicizia fra due ragazzi musulmani di razze diverse. Il suo film d’esordio, Le tango des Rashevski (2003), descriveva le vicende di una famiglia ebrea con tratto lieve e un sottile umorismo. Garbarski lo presentò alla stampa, dichiarando, curiosamente, la propria predilezione per la commedia all’italiana. Al momento di cercare l’attrice adatta al difficile ruolo di Maggie/Irina Palm, ha avuto l’intuizione di proporlo a Marianne Faithfull, una cantante-attrice che rappresenta uno degli emblemi della trasgressione e della Swinging London degli anni 60. Il candore e l’ingenuità di Mag-gie hanno trovato un’interprete perfetta nella Faithfull proprio per il contrasto assoluto con la sua storia (nelle interviste ha dichiarato di non avere assolutamente nulla in comune con il personaggio e che è stata proprio questa diversità ad attrarla).

Il successo di Irina Palm – è un altro paradosso della fortuna di questo film – sembra quasi l’ironico controcanto del fiasco commerciale che subì quarant’anni fa Nuda sotto la pelle (The Girl on a Motorcycle, 1968), ispirato a un romanzo di Mandiargues, una delle regie meno felici del grande direttore della fotografia Jack Cardiff e l’unica altra prova da protagonista cinematografica della Faithfull. Inguainata nella pelle nera di una tuta da motociclista che le fasciava le forme conturbanti del corpo e costituiva il suo unico indumento, l’interprete di Summer Nights si trasformava in una dolce e sensuale centaura, assatanata di desiderio. Inforcava la motocicletta e nottetempo fuggiva via dal marito scialbo, per raggiungere il letto del suo amante (un professore libertino impersonato con suadenza luciferina da Alain Delon), che l’aveva iniziata ai piaceri della carne. In quel film ridondante e stucchevole, dove gli amplessi erano dissimulati da tripudi di rose e da effettismi cromatici di maniera, la Faithfull incarnava un sogno erotico sadomasochistico che la morale del film puniva con la morte.

Nulla di più distante dalla casalinga ultracinquantenne goffa e chioccia che la cantante impersona in Irina Palm. Ma il centro nevralgico del film è il viso dilatato della Faithfull, dove ancora rimangono alcune tracce dell’avvenenza giovanile, e soprattutto il suo sguardo, dove l’ansia e lo stupore si uniscono ad un’energia inossidabile, una candida e irremovibile determinazione femminile, che non teme mortificazioni o umiliazioni.

Le due marginalità - Il personaggio di Maggie è la negazione delle eroine del cinema formattato di oggi: arrivata alle soglie della terza età, appesantita nel fisico, vedova e senza soldi, fa la spola dalla banca agli uffici del personale, dove viene respinta (anche, piccolo tocco d’ironia, da un’impiegata che ha in testa un cappuccio da Babbo Natale). L’età non più verde di Maggie contraddice anche il diktat generazionale imposto da un cinema concepito e prodotto per adolescenti, secondo cui i protagonisti devono essere giovani e giovanissimi con cui un pubblico giovanile possa facilmente identificarsi. In Irina Palm, invece, i giovani hanno un ruolo di sfondo (il nipotino) o odioso (il figlio, ottusamente succubo dei suoi pregiudizi piccoloborghesi). Se nel Tango des Rashevski la nonna era il pilastro della famiglia che entrava in crisi dopo la sua morte, qui la nonna è l’unica ad agire, noncurante dell’età e del proprio ruolo sociale.

Bisogna precisare che al successo internazionale di pubblico del film di Garbarski non ha fatto riscontro il giudizio unanime della critica (in Francia, per esempio, sia i «Cahiers du Cinéma» che «Positif» l’hanno stroncato con eccessiva ferocia, dissimulando a stento, soprattutto i primi, qualche pregiudizio contro il cinema belga e quello britannico). La recensione più centrata ci sembra quella di Frédéric Strauss su «Télérama» (12 maggio 2007) che lo ha definito una «fiaba», paragonando Maggie a una fata che è al tempo stesso Cappuccetto rosso alle prese con un lupo (il padrone del “Sexy World” e, in generale, il crudele mondo esterno). Un lupo che, aggiungiamo noi, si rivela assai meno pericoloso delle coetanee piccoloborghesi di Maggie, ipocrite, infide e sessualmente represse. Come una fiaba, appunto, la storia del film è scandita da una serie di prove che la protagonista deve affrontare per compiere la sua buona azione: la discesa negli “inferi” del “Sexy World”, il “lavoro” masturbatorio, la reazione scandalizzata del figlio, delle amiche e dei vicini, il debito contratto verso Miki. L’impresa principale consiste in una forma di degradazione che segna anche il passaggio da una marginalità rispettabile (le sue modeste condizioni di vita) a una marginalità esecrata dai benpensanti e dalla morale corrente.Scopriamo presto che la vita sessuale  di Maggie era iniziata e finita con il marito, da lei sposato in giovanissima età, e il suo candore nei confronti del mondo (un candore, ancora, da eroina delle fiabe) era tale che nemmeno sospettava l’esistenza di luoghi come il “Sexy World”, dove gli uomini soli, in cerca di un estemporaneo ed economico appagamento erotico, infilano il proprio membro in un buco per farsi masturbare da una sconosciuta che non vedono.

Come nella migliore tradizione fiabesca, Maggie ha una dote inaspettata – le mani morbide – (non molto verosimile per una casalinga attempata), cui se ne aggiunge un’altra che arriverà a scoprire strada facendo: una sensibilità acutissima al tatto e alle reazioni dell’uomo che è in piedi, eccitato, al di là della parete. In fondo, l’ipersensibilità tattile della donna sembra una virtù speculare alla sua generosità di donna che si è sacrificata prima per il marito, poi per il figlio, quindi è pronta a tutto per salvare il nipote. La marginalità esistenziale e sociale di Maggie approda quindi all’estrema marginalità di un luogo di prossenetismo, che sembrerebbe il teatro di una definitiva deriva, di un abbrutimento senza uscite. Il piccolo, squallido mondo sotterraneo del “Sexy World” si rivela invece un’alternativa di salvezza che nessuno spazio di lavoro urbano appartenente alla rispettabile società dell’Inghilterra di Blair sembra poter offrire alla gente diseredata come Maggie.

Purtroppo Garbarski e Blasband mancano di finezza nel disegnare le contraddizioni di Miki: la sua trasformazione – da cinico magnaccia minaccioso a generoso burbero dal cuore d’oro e addirittura innamorato – è fin troppo repentina (nonostante la bravura e l’espressività di Miki Manojlovic) e le diverse sfaccettature che il personaggio dovrebbe rivelare gradatamente, si affastellano una dopo l’altra, come ad assecondare lo svolgimento di una trama decisa a tavolino. Regista e sceneggiatore hanno però evitato ogni tinta edulcorata nel delineare il clima del “Sexy World”, una piccola fabbrica di orgasmi a buon mercato, dove s’inserisce il frangente del licenziamento della “collega” di Maggie. La ragazza, che aveva solertemente aiutato la stagionata casalinga nell’“apprendistato” della sua nuova attività e nella pratica dei “trucchi” del mestiere, perde il lavoro proprio a causa del successo di Irina Palm. Alla fortuna di Maggie consegue quindi, come un amaro contrappasso, la rovina di chi l’ha aiutata.

I rituali della stanza solitaria Garbarski e Blasband hanno anche progressivamente sfumato la dimensione anomala del “lavoro” di Irina Palm, rendendolo più che altro una forma di manodopera sessuale che ha le cadenze di un piccolo rituale degradato: il sapone liquido con cui preparare la mano alla bisogna, la scatola di fazzolettini di carta, una luce rossa che si accende per segnalare la presenza del cliente, il silenzio rotto solo dai gemiti di eccitazione e poi di orgasmo. Con inquadrature attentamente dissimulate, Garbarski evita di inquadrare i sessi dei clienti e mostra solo la perizia dei movimenti di Maggie e la sua placida assuefazione a quel boulot, fino a mostrarla intenta a leggere delle riviste per ingannare il tempo durante le prestazioni, perché ormai avvezza a quella piccola catena di montaggio. Maggie finisce per prendere possesso di quell’“impegno” quotidiano, considerandolo quasi un’emanazione delle incombenze domestiche (arreda la stanzetta con quadretti e oggetti portati da casa). A quel punto, ormai la donna non considera più quel “lavoro” da una prospettiva morale, ma da un’ottica pragmatica e rispondente ad una superiore necessità e urgenza (la sola soluzione per racimolare la somma necessaria a salvare Olly). In questo senso, l’esperienza di Maggie al “Sexy World” costituisce anche una sorta di nuova iniziazione alla vita e ad un diverso rapporto con le azioni e il loro senso morale. È l’etica di cui sono prive le sue coetanee benpensanti contro cui Blasband e Garbarski lanciano strali di sarcasmo, in particolare quando mostrano la golosa curiosità che si accende in una di loro riguardo alle dimensioni dei membri maschili, o quando svelano l’ipocrisia di Jane (Jenny Agutter), il cui intransigente moralismo nasconde una relazione adulterina a suo tempo consumata furtivamente con il marito di Maggie e vivacizzata da pratiche sadomasochistiche.

È probabile che Irina Palm abbia tratto giovamento dall’ambientazione in un paese di tradizione puritana come l’Inghilterra (dove quel tipo di sexy shop sono molto apprezzati, come, a quanto pare, negli Stati Uniti e in Giappone) che offre un acquario umano più adeguato tra repressioni e insoddisfazioni sessuali. Il paesaggio della sontuosa campagna inglese che viene sorvolato dalla mdp nella prima sequenza del film sembra quasi un incipit sarcastico, se confrontato con gli angusti interni (degli appartamenti dove si consumano thé e pettegolezzi acidi o dei locali dove si cerca l’apporto onanista di una mano invisibile).

Se per Maggie il sesso era un’esperienza sepolta da anni, per i suoi clienti è (evidentemente) un’ossessione solitaria che sfogano con un surrogato del coito, consumato nella solitudine virtuale della loro immaginazione (stimolata dal nome esotico di Irina Palm che evoca una esotica immagine femminile ben diversa dalla realtà) ma con l’ausilio di una mano reale. La solitudine di Maggie, del resto, trova uno spontaneo riflesso in quella, desolata, dei suoi clienti, di cui Garbarski mostra in una sequenza un rapido campionario. Quel triste rituale di godimenti solitari e affannosi ricorda la situazione vissuta dal protagonista di un’altra sceneggiatura di Blasband, l’agorafobo Thomas di Thomas est amoureux (2000, di Pierre-Paul Renders, in Italia Thomas in Love, sic), che non esce di casa da otto anni e vive la sessualità in forma puramente virtuale, davanti allo schermo di un computer. Anche in Irina Palm, ritroviamo una sessualità consumata nella solitudine e in una (relativa) virtualità, che è un sintomo dell’aria del tempo. L’atmosfera malinconica che aleggia nel film, sembra derivare non solo dal gravare della crisi economica, ma anche dalla “carne triste” di un’umanità ridotta a vivere il sesso in forme tristemente succedanee. La malinconia è data anche dai contrasti attenuati e dolcemente mesti della luce di Christophe Beaucarne (il direttore della fotografia cui si devono i magnifici e sensuali paesaggi di Peindre ou faire l’amour dei fratelli Larrieu).

In questo quadretto d’epoca, immiserita dalla crisi economica e dalla sessualità virtuale, il “principe azzurro” assume non troppo paradossalmente l’identità di un magnaccia, la cui attrazione per Maggie diviene più intensa dopo che egli stesso ne ha sperimentato, in incognito, le virtù manuali.