L’immaginazione al potere? Il potere dell’immaginazione? Tra realtà e allucinazione i fantasmi che incalzano l’artista Johan Borg/Max Von Sydow prendono il sopravvento sul suo intelletto e il controllo del suo mondo interiore, manipolandolo e trascinandolo in una spirale autodistruttiva della quale è a un certo punto difficile dire se egli sia vittima o protagonista. Bergman inaugura il ’68 realizzando questo film, livido e sfuggente, aperto nei titoli di testa dalle voci della troupe che si appresta a girare, le quali sottolineano così che tutto ciò a cui stiamo per assistere è finzione, artificio: segno e ricerca di senso. E si impadronisce da par suo di quella terra di nessuno che si estende fra Buñuel e Fellini (ma anticipa derive ancora di là da venire, lynchane e cronenberghiane) per adibirla a luogo di prodigi che prendono forma nel momento più incerto della notte, l’ora in cui molte persone muoiono e molti bambini nascono… Ci viene mostrata l’evaporazione dell’artista, che implode e svanisce senza che la sua compagna – troppo innamorata, per sua ammissione, e per questo divenuta troppo simile a lui – possa salvarlo. Eppure, eppure… è proprio Alma/Liv Ullmann – un po’ troppo angelica… – ad aprire e chiudere il film con le sue frasi e le sue considerazioni, appena dissimulate dietro l’esistenza di un fantomatico diario di Johan: che sia lei, in definitiva, la depositaria forse inconsapevole del mistero di questa perdizione?