Figlia mia è la storia di tre donne legate fra loro, non della loro relazione. Vittoria, bambina di dieci anni dai capelli rossi, e le sue due madri, la sbandata Angelica e la dolce Tina, proseguono ciascuna per la propria strada, chiuse nel loro cammino solitario. Non c’è sviluppo, non c’è intreccio, solo l’incontro di tre distinte linee narrative: della figlia che scopre la verità sulla propria nascita e incontra le sue vere origini; della madre naturale che rivendica ciò che anni prima ha consensualmente lasciato andare; della madre acquisita, che deve venire a patti con l’impossibilità di considerare il proprio amore esclusivo.
La sceneggiatura di Laura Bispuri divide il racconto per blocchi narrativi rigidi, per macro-sequenze nelle quali cambiano le pedine in gioco ma non le dinamiche di avvicinamento e allontanamento fra i personaggi: Vittoria + Tina, Angelica + Tina, Vittoria + Angelica, Tina + Vittoria e così via. Fino al finale che, come del resto l’incipit, unisce le tre protagoniste nella stessa scena, salvo poi seguire la sola Vittoria e lasciare che sia propria la bambina a liberarsi della sua vecchia vita, dopo una simbolica immersione in un buco/utero materno scavato nella terra, seguita da un’immediata fuoriuscita e, ça va sans dire, da un ancora più simbolico gesto di spoliazione, con la maglietta gettata a terra e il petto nudo mostrato come alla nascita (nascita, giusto per proseguire nel gioco dei rimandi, che nel corso del film viene fatta vedere con tanto di ripresa a bassa definizione…).
Vedendo Figlia mia ci si accorge insomma dell’elementare costruzione drammaturgica che lo sostiene, senza alcuna deviazione dalle tre linee principali che renda sfumati i rapporti fra le tre protagoniste o le motivazioni delle loro scelte, e senza personaggi secondari (salvo forse il marito di Tina, risolto però in poche battute) che allarghino la rappresentazione realistica, e non puramente utilitaristica, dell’ambiente in cui è ambientato il film, la Sardegna sud-orientale del Supramonte, nettamente divisa fra mare e montagna, acqua e terra.
La stessa regia, gestita quasi sempre con la camera a mano, si limita a rappresentare Vittoria, Angelica e Tina in perenne movimento, riprese di spalle o frontalmente, sovente sole nello spazio, ciascuna a negoziare con sé stessa la propria personalità. C’è uno sviluppo narrativo, ma non c’è alcuna crescita reale, a cominciare dagli stereotipi bloccati della bambina che muore e rinasce, della sbandata che riscopre lo spirito materno e della madre apprensiva che riconosce la natura soffocante del proprio amore.
Nella trama, Figlia mia non è molto diverso da uno dei più bei romanzi italiani degli ultimi anni, L’arminuta di Donatella di Pietrantonio, dove un ragazzina poco più grande della Vittoria di questo film, in un’Italia di provincia più lontana temporalmente ma non troppo diversa, scopre di avere due madri, quella acquisita che ai suoi occhi inspiegabilmente l’abbandona e quella naturale che suo malgrado la ritrova. Ma nello stile impressionista dell’autrice abruzzese non c’è traccia della rigidità simbolica della scrittura di Laura Bispuri; al contrario, nella vaghezza con cui la realtà, come si legge nell’ultima splendida frase del romanzo, stringendo le palpebre viene presa prigioniera tra le ciglia, a echeggiare è proprio la fragilità del cammino di crescita raccontato per illuminazioni e frammenti; il sentiero che porta una bambina a diventare donna liberandosi dal concetto di madre e accettandolo, non come retaggio, ma come possibilità.
In Figlia mia, purtroppo, tutto è troppo visibile, tutto troppo descritto e raccontato, con gli occhi troppo aperti della regista che finiscono per non mostrare nulla allo spettatore.