Poche volte ci si trova di fronte a un’opera che è assieme un testamento e un inno alla vita e al cinema, trovando nella pellicola il luogo sospeso, nello spazio e nel tempo, in cui continuare a vivere.
Visita ou memórias e confissões è il film che Manoel de Oliveira ha girato tra il 1981 e il 1982, all’età di 73 anni, quando ha dovuto lasciare la casa in cui aveva vissuto quarant’anni con la moglie Maria Isabel e i quattro figli. Il film è stato depositato alla Cinemateca Portuguesa con la richiesta, da parte dell’autore, di mostrarlo solo dopo la propria dipartita, avvenuta lo scorso aprile.
Nei trentatré anni trascorsi de Oliveira ha continuato a fare cinema, capolavori che giocavano col tempo e la morte. E gioco è forse la parola che più si addice a quest’ultimo straordinario film (che non è l’ultimo), perché ha la leggerezza di certe giornate terse di primavera, che senza motivo ti risollevano il morale e ti portano a sorridere senza ragione.
Visita ou memórias e confissões è una visita alla casa ormai in vendita, è una dichiarazione d’amore alla moglie, è un album di ricordi aperto sul futuro, in una specie di cortocircuito temporale. È un film di ombre e fantasmi, tutt’altro che triste, è una danza semplice e perfetta, che sembra invitare lo spettatore a lasciare il proprio posto, alzarsi in piedi e unirsi al ballo. Ne La ricotta (1963), Pasolini faceva dire a Orson Welles, a proposito di Fellini, “egli danza… egli danza…”, e questo sembra fare anche de Oliveira con la sua macchina da presa, la sua figura minuta e rapida, il suo sguardo ampio.
Che cosa si vede in Visita ou memórias e confissões? Si vedono degli alberi, affacciandosi alla finestra di casa, delle magnolie dalle foglie carnose e verdi e un unico fiore bianco, con due corolle, che sembra occhieggiare in mezzo ai rami, un’apparizione furtiva, come l’Incantatrice di serpenti di Henri Rousseau, che sbuca misteriosa dalla radura. Si vedono stanze e corridoi, ormai già abbandonati, e si sentono le voci di due visitatori. Si vede una luce indecidibile (che ora è?), si vedono le fotografie della famiglia di de Oliveira, suo padre, sua madre, il fratello, e il regista bambino e poi adolescente e poi adulto. Ci sono le immagini del suo matrimonio e dei suoi figli piccoli e poi dei figli grandi che hanno avuto altri figli.
Non c’è nulla di statico, tutto è in divenire, tutto si muove. E poi c’è Manoel de Oliveira in carne e ossa, seduto alla sua scrivania, che batte a macchina e lavora e guarda nella macchina da presa e parla allo spettatore, che è a sua volta entrato a fargli visita nella casa disabitata. Mostra dei filmati che ha girato nel tempo, è ospitale come un bravo padrone di casa, ironico come sempre. Tra i tanti filmati ce n’è uno con l’amata moglie Maria Isabel, in mezzo ai fiori, osservata con una dolcezza infinita: lei ne raccoglie alcuni, risponde alle domande sul marito, dice che nella sua vita si è dedicata a lui con pazienza, che non si può dividere l’uomo dal cineasta, perché facendo questo scomparirebbe la persona. Da parte sua de Oliveira confessa di aver consacrato tutta la sua vita al cinema, di essersi indebitato e di aver rischiato tutto pur di fare i suoi film. E poi il regista parla dei genitori, delle donne e del desiderio, del desiderio che è uno sguardo rivolto verso un mistero, verso un tempo perduto e ritrovato, verso un luogo che non è da nessuna parte ed è sempre stato lì.
I due visitatori che all’imbrunire salutano e se ne vanno non sono altro che ombre tra le ombre, presenze che provengono da chissà dove, da chissà quale momento preciso. I ricordi non sono qualcosa che va perso nella memoria del tempo, come in un magma indecifrabile, sono presenti, costantemente presenti, come tracce che testimoniano quello che è stato, si attaccano alle pareti di una casa come alla pelle di una persona, e basta un profumo, un bagliore, per renderli nuovamente disponibili, pronti a mescolarsi con l’immaginazione, con la creazione artistica, con tutto quello che ognuno di noi ha provato.
Alla fine non siamo sicuri di quello che abbiamo visto o meno, forse nous n’avons encore rien vu. E se qualcosa abbiamo visto di certo quello era un fantasma, perché già nel 1982 de Oliveira non era più nella casa in cui ci ha accolto e oggi non è più qui, dunque forse non lo è mai stato, è sempre stato altrove, in un altro spazio e in altro tempo che a questo punto diventa ogni tempo, consegnando il suo sguardo all’eternità.