Fantasmi. Fantasmi del passato, del presente, del futuro.
A Cannes 2015 di fantasmi se ne sono visti ovunque. Fantasmi del tempo, dello spazio, dello sguardo, chiamati come sempre ad annullare il confine tra visibile e invisibile e trasformati in figure che non spaventano più, non inquietano più, ma semplicemente convivono offrendosi alla vista.
Fantasmi di morti pacificamente affiancanti ai vivi sono protagonisti di Journey to the Shore di Kurosawa Kyoshi e di Cemetery of Splendour di Apichatpong Weerasethakul, una meraviglia che allestisce il vuoto, o meglio l’assenza, in modo mai così vivo e concreto; mentre in The Lobster di Yorgos Lanthimos corpi umani trasformati in animali rappresentano il futuro dell’umanità, e nel caso la metafora non fosse abbastanza chiara l’unica alternativa rimasta agli umani è la cecità… In Trois souvenirs de ma jeunesse di Arnaud Desplechin, invece, Paul Dédalus a un certo punto riceva la visita del fantasma benevolo della nonna e per tutto il film (per tutta la vita!) convive con l’immagine ossessiva della sua Esther, amore perduto e abbandonato, ma unica figura in grado di definire la sua identità, di ribadire la sua esistenza.
In Comoara di Corneliu Porumboiu, poi, dal passato della Romania emerge un tesoro sotterrato prima dell’arrivo dei comunisti e oggi in grado di mandare la crisi laddove merita, senza contare che il protagonista di Saul Fia di László Nemes, prigioniero di un lager nazista nei giorni della soluzione finale, è pure lui poco più che un fantasma, un corpo che attraversa la filiera della morte cercando di resistere al processo di disumanizzazione e per questo è condannato dalla macchina da presa a restare in campo, a respirare, correre e sopravvivere in primo piano, trovando la morte in quel fuoricampo che il film evoca e movimenta come se fosse il vero protagonista.
Cannes 2015 è stato, ovviamente, il festival del fantasma dolce della madre di Nanni Moretti (ripreso dai fantasmi della madre, del padre e del figlio scomparsi, rispettivamente in Louder Than Bombs di Joachim Trier, Our Little Sister di Kore-Eda Hirokazu e Valley of Love di Guillaume Nicloux) e del solito, vecchio fantasma di Sorrentino, anche stavolta tornato sotto forma di amore lontano, vagheggiato e svilito come ideale di bellezza e semplicità. È stato, va detto, anche il festival del fantasma di Ken Watanabe che si aggira con Matthew McConaughey nelle foresta dei suicidi sotto il Monte Fuji: ma in The Sea of Trees, va detto pure questo, purtroppo, l'unico fantasma che si vagheggia è quello del cinema di Van Sant e della sua perduta bellezza...
Pure un cane, in fondo, ha trovato a Cannes 2015 il suo doppio fantasmatico: nel finale del secondo tassello di As Mil e uma Noites di Miguel Gomes, O Desolado, il piccolo Dixie si trova infatti di fronte la sua arzilla versione morta e trasparente, e l’effetto della pellicola è così elementare e lontano, come un altro effetto simile e più grafico ancora nella terza parte del film, O Encantado, che per un attimo fa pensare che sia proprio lei, la pellicola, l’unico, vero fantasma vagheggiato del cinema contemporaneo, dal momento che il digitale che l’ha sostituita, dal folle Mad Max: Fury Road in giù, può permettersi di trattare l’invisibile e l’inafferrabile come tutto il resto, e cioè mettendolo in scena in quanto immaginario senza materia e senza spessore, al tempo stesso realistico (meglio, realizzabile) e irraggiungibile.
Una tensione, quest’ultima, fra realismo e fantastico, fra materia e illusione, che Garrone ha sfruttato alla perfezione per le cose migliori del suo Racconto dei racconti, restando però un passo dietro rispetto a Gomes quando cerca di restituire alla realtà contemporanea una nuova, possibile forma di narratività e racconto: perché in realtà il vero fantasma di As Mil e uma Noites è un altro ancora (da condividere, ad esempio, con quello che attraversa La loi du marché di Stéphan Brizè), ed è il fantasma della crisi, tema immancabile di decine di film di questo decennio, che il cinema non è mai riuscito veramente a cogliere e che Gomes mette non a caso all’origine della sua operazione intellettuale.
Adattando alla struttura delle Mille e una notte il clima sociale della società portoghese tra il 2013 e il 2014, Gomes prima fugge di fronte al dramma della chiusura dei cantieri e della disoccupazione, poi ridicolizza la frustrazione delle politiche monetarie e, fra le altre cose, mette in scena l’interscambiabilità della merce e della colpa nella società capitalista, e infine ritrova i frammenti di un racconto esploso, e con esso nuove forme di rappresentazione «del popolo» (in un’accezione ironica e creativa che finalmente supera il modello straccione ed elegiaco di Pasolini), grazie al fantasma per eccellenza delle Mille e una notte, Sherazade, e soprattutto al canto penetrante dei fringuelli che per un’ora e mezza accompagnano in modo allucinatorio l’incredibile, unica e inimitabile terza parte del suo capolavoro.
Unici e inimitabili, però, sono a loro modo pure due tra le cose più belle (e almeno in un caso, irrisolte) viste a Cannes 2015: Mountains May Depart di Jia Zhangke e The Assassin di Hou Hsiao Hsien. (Del vincitore, Dheepan di Jacques Audiard, non si può che dir bene, e pure qui il protagonista eponimo, una ex tigre Tamil emigrata dallo Sri Lanka alla Francia, si porta dentro la guerra come se fosse lei, il suo fantasma, liberandosene fra l’altro nel modo più violento e giusto possibile). Entrambi i film in questione, quello di Jia e quelo di Hou, sono film sulla Cina imperiale, la Cina di oggi e la Cina del IX secolo, film di confini e di barriere sentimentali e geografiche da ridefinire. Il primo è bello, anzi bellissimo, solo per una parte, poi, almeno per chi scrive, incredibilmente si perde per strada, diventa troppo letterale e troppo evidente; il secondo, invece, è una cosa quasi mai vista, di sicuro impossibile da imitare (se non dallo stesso Hou, tornato a girare con gli oscillamenti di Flowers of Shangai e Millenium Mambo).
E se Mountain May Depart, cominciato nel 2001, finito poche settimane fa e ambientato in tre periodi – 1999, 2014, 2025 – è letteralmente un film sul passato, il presente e il futuro della Cina e del mondo tutto, con il senso del tempo e dello spazio che progressivamente vanno disperdendosi, quello di Hou è soprattutto – ma non solo, tanto è complesso e stratificato – un film sulla luce, il colore e il movimento. Un film che, nel cinema digitale della sparizione della materia e del sangue (pensiamoci: in Mad Max: Fury Road di sangue se ne vede pochissimo) trova in maniera stupefacente una nuova presenza quasi fisica della luce, del colore e del movimento. E ci riesce scavando in nient’altro che l’attesa, in nient’altro che l’attenzione per i dettagli o per lo scorrere lento degli elementi naturali, chiedendo allo spettatore di osservare, di attendere, di scrutare dentro l'immagine e farsi ipnotizzare. The Assassin fa con le inquadrature ciò che Gomes fa con il canto dei fringuelli: riparte dall’unità minima, dal grado uno dello sguardo e del racconto, per ritrasmettere il segnale di un cinema dato per morto, trasformato in fantasma, ma con il cuore ancora capace di battere. E da guardare, ovviamente, con gli occhi sbarrati, come la dolce vecchina di Apichatpong.