David (Tim Roth) è un infermiere taciturno che assiste diligentemente pazienti in stato terminale. Andamento lento, passo catatonico, professionalità impeccabile. La vita di David sembra iniziare e finire con il suo lavoro. A casa, da solo, alienato dagli affetti e da ogni forma di socialità, sfoglia le foto del profilo social di una ragazza: la figlia distante che non vede da anni.
La routine dell’uomo è scandita da un ritmo crudele: quando un paziente muore, ne arriva subito un altro cui dedicarsi con un fervore e una vicinanza che diventa sospetta agli occhi dei parenti, incapaci di sopportare che un estraneo possa affrontare un peso che per loro è impensabile, insormontabile, ingestibile. Questa dedizione “oscena” porta David a subire una denuncia che rischia di allontanarlo dal suo unico orizzonte di vita, quello professionale. Del suo passato sappiamo poco, solo l’incombere di un dramma che cerca di rimuovere attraverso quella disperante ricerca di un contatto con i malati, con cui riesce a stringere una relazione per lui impossibile nel mondo normale.
Il messicano Michel Franco, che nel 2012 vinse Un Certain Regard con l’aspro e bellissimo Después de Lucía, costruisce in Chronic il ritratto di un’anima in pena – un uomo che sconta il proprio inferno personale abitando un limbo, quello sottile che divide la vita e la morte dei suoi pazienti – con toni lugubri e asettici. Le inquadrature del film sono livide, spoglie, scarne, proprio come le stanze occupate principalmente da letti ospedalieri, macchine per l’ossigeno, bacinelle sanitarie.
David cerca di espiare la colpa che si porta in petto annullandosi nell’accudimento, conquistando fiducia e intimità in uomini e donne morenti, rubando loro frammenti di una vita che non è più capace di vivere, affogato in una disperata anaffettività (e Roth è bravissimo nel trovare sfumature espressive in un personaggio programmaticamente monocorde, facendo intuire il fluire delle emozioni attraverso una recitazione tutta in levare).
L’attenzione del film è comunque tutta dedicata all’appassimento dei corpi, al degrado fisico che sgomenta, al terremoto psicologico innescato dalla consunzione materiale. Questa sarebbe la parte più interessante del film se Franco non trovasse la sua unica applicazione stilistica in una litania interminabile di lavaggi, di docce, di asciugamani, che puliscono e tamponano nudità sfatte, sporche, tremebonde sulla soglia della fine. In questo modo il rigore formale – impassibile, liturgico, quasi decolorato – assume un sospetto di maniera, lo sguardo generale non sa evitare un certo gusto macabro insistendo ossessivamente, e in maniera punitiva, sulla rappresentazione del dolore, del disfacimento, della bava, della merda.
Il rispecchiarsi quindi tra infermiere e paziente, tra accudimento e necessità, tra salute e malattia, si trasforma nella messa in scena di un’intimità macabra e asettica, in un’elucubrazione cerebrale e raggelante che congela ogni ipotesi empatica. Il vivere perennemente sul bordo del lutto è la pena che David si autoinfligge, non sapendo perdonarsi una colpa che sente di aver commesso e per cui aleggia una punizione.
Le buone intenzioni di Chronic si sfaldano presto – anche per colpa di un andamento narrativo soffocante e ostentatamente ieratico che finisce per togliere respiro alla storia, col suo ridondante valore simbolico – e il film si perde, scivolando verso un finale imprevisto quanto disastroso, non privo di un certo sapore oscurantista.