Doveva arrivarci Audiard, col suo cinema solido, quasi classico, a dircelo. Una history of violence non si nasconde necessariamente dietro la maschera di un freddo marcantonio alla Viggo Mortensen, ma può celarsi anche dietro le parvenze dimesse di un immigrato stanco, di un cingalese defilato, uno di quelli che ti vendono le rose surgelate, i cappellini di paillettes o perfino il cerchietto luminescente di Minnie, prendendoti per sfinimento.
Nell'intento di narrare una storia di immigrazione nell'Europa contemporanea, ma volendo evitare di toccare i tasti, sempre dolenti, delle ex-colonie francesi, Audiard si è orientato verso i profughi provenienti dallo Sri Lanka, imbattendosi in un territorio per lui, almeno all'inizio, completamente sconosciuto. E infatti, in apertura, allo spettatore si presenta una situazione caotica, quella generata dalle conseguenze dello tsunami (2004) e dalla guerra civile.
Non è chiaro quale relazione connetta Dheepan e Yalini, ma sappiamo subito che sono costretti, per fuggire in Occidente, a raccogliere l'identità di una famiglia deceduta, adottando un'orfana completamente sconosciuta, portandosi appresso quella che da subito si rivela una condanna a un doppio sradicamento: non solo si ritrovano in Francia senza conoscere nessuno né tantomeno la lingua, ma anche la recita forzata dei ruoli famigliari, tra le pareti domestiche, non sembra comporre le tensioni. Altri problemi, ben più gravi, si manifestano proprio quando il ménage comincia a ingranare (meravigliosa, in una giornata in cui tutti parleranno di pornografia e di limiti nella rappresentazione del sesso, la scena in cui Yalini si concede a Dheepan lasciandosi inghiottire dal buio della stanza).
Quello di Audiard però è ben lontano dall'essere un film legato esclusivamente all'illustrazione del disagio sociale e della voglia di riscatto di chi abbandona una patria per cercare una vita migliore altrove. Sotto la cenere, quella dei corpi cremati nella prima sequenza, che Dheepan sembra portarsi addosso nel suo viaggio in Europa come un velo di tristezza insanabile, covano le braci mai spente della violenza, canalizzata e ideologizzata, di cui è capace un ex militante delle Tigri per la liberazione della patria Tamil, la minoranza induista dello Sri Lanka, la cui azione fu all'origine della guerra civile, soppressa nel 2009.
Solo un narratore abile a gestire le forme del genere come Audiard, poteva serbare, una volta definite le forze e le debolezze dei propri personaggi, la virata in chiave polar che il film prende verso la metà: anche se della polizia e del diritto non abbiamo nessuna traccia ufficiale, la legge - però quella tribale delle gang di periferia - è garantita fin dalle prime scene ambientate nella banlieue, dalla presenza incombente delle vedette/cecchini che popolano i tetti dei palazzi, riprese sempre in campo lungo, impersonali, quasi fossero un fregio umano alle architetture popolari deumanizzate.
A maggior ragione, a contrasto, la chiusa, utopica più che idillica, in un hortus conclusus festivo e rilassato, dove il razzismo e l'esclusione non hanno albergo, non può essere che un sogno (l'ultimo?), all'ombra benaugurante di Ganesha, dio del buon auspicio, ma anche della conservazione e della sopravvivenza.