Ci vuole sempre un gran coraggio a affrontare William Shakespeare e ci vuole ancor più coraggio a rifare il Macbeth, dopo Orson Welles (Macbeth, 1948), Akira Kurosawa (Kumonosu-jô - Il trono di sangue, 1957) e Roman Polanski (The Tragedy of Macbeth, 1971). Ma il punto, forse, non è nemmeno questo: spesso l’azzardo conduce a risultati notevoli proprio per la follia insita nel rischio. Purtroppo il film di Justin Kurzel non sembra né frutto di coraggio, né di encomiabile azzardo, piuttosto di un insopportabile calcolo studiato a tavolino per portare sullo schermo due divi amatissimi e coccolati da Hollywood – Michael Fassbender e Marion Cotillard – in un film che sembra un incrocio tra lo spot di un profumo maschile e 300 (2006) di Zack Snyder.
Kurzel trasforma il Macbeth in una tragedia privata del tragico e questa, per quanto discutibile, potrebbe essere una scelta interessante: in un’epoca in cui, attraversata anche l’ubriacatura postmoderna, non si è più in grado di affrontare grandi narrazioni - l’epica stessa sembra scomparsa e solo pochissimi autori ancora si impegnano a cercare una narrazione comune e condivisa con un immaginario che si sta perdendo - la decisione di scarnificare una delle tragedie più note e amate del Bardo sarebbe potuta essere stimolante, portando lo spettatore a un ragionamento più ampio attorno alla capacità o meno del cinema di raccontare un mondo ormai in pezzi. Invece l’assenza di tragico porta solo noia poiché non sostenuta da una messa in scena che abbia una qualche coerenza con questa scelta.
Prendere a modello 300 che invece cercava a suo modo di riappropriarsi dell’epica benché in maniera fumettistica e eccessiva, non sembra aver molto senso, se non quello di ripetere uno stile che al botteghino funziona a meraviglia. Dall’altra parte gli insopportabili rallenti dei fiotti di sangue e delle cruente battaglie sono ben poca cosa rispetto alle inquadrature insistite e fisse sul corpo, il viso e gli occhi di Fassbender: lui che si staglia tra l’acqua e il cielo con nuvole minacciose all’orizzonte è quanto di più simile ci sia a certe pubblicità con uomini che non devono chiedere mai e che al tempo stesso sono sexy, tormentati, virili, egoisti, simpatiche canaglie. Chissà se poi un giorno ci si stancherà magari di questi cliché che sembrano ormai uno la parodia dell’altro.
A peggiorare la situazione già drammatica del film interviene la musica che non si ferma un momento: non c’è un solo istante del film senza colonna sonora, il violoncello è così invadente che si può solo sperare di tornare a casa e il tuo vicino si metta a provare la tromba tutta la notte per compensare il tappeto di note gravi e deprimenti che accompagnano gli sguardi tristi della Cotillard. Poche volte due attori solitamente di grande talento e presenza (solo lo scorso anno lei aveva dato una prova straordinaria nel film dei fratelli Dardenne, Deux jours, une nuit; mentre lui ha avuto modo svariate volte, non solo con Steve McQueen, di dimostrare la propria bravura) sono stati diretti così male, esempio ulteriore di come al regista interessasse solamente il lato divistico dei due ma non le loro capacità attoriali.
Infine poche parole su alcune scelte di montaggio, anche quelle prese in considerazione solamente in virtù della loro attrattiva formale ma senza alcuna necessità ai fini della coerenza del film. Usare un montaggio alternato che frammenti una scena in corso con momenti della scena successiva è una decisione molto rischiosa: se utilizzata bene regala momenti di cinema altissimo – basti pensare alla scena d’amore tra Donald Sutherland e Julie Christie in Don’t Look Now (A Venezia… un dicembre rosso shocking, 1973) di Nicolas Roeg, forse tra le più sensuali e belle mai realizzate – se utilizzata solo in virtù del sua spendibilità pop diventa ridicola.
Chiudere con un film così mal riuscito un concorso davvero poco esaltante, fatta eccezione per veri e propri gioielli, da Jia Zhangke a Hou Hsiao–hsien passando per Nanni Moretti, lasciar fuori dalla competizione ufficiale un capolavoro come quello di Apichatpong Weerasethakul, snobbare film magnifici come quelli di Arnaud Despelchin e Philippe Garrel, dovrebbe togliere ogni dubbio (semmai ancora ce ne fossero) sulla politica di giocare al ribasso in termini di qualità e originalità che ormai sta ammorbando la maggior parte dei grandi festival, a partire proprio dal “Festival più importante del mondo”.