La lotta al cartello messicano della droga raccontata come un tempo si filmava la guerra in Vietnam: senza vincitori né vinti, senza eroi né martiri, soprattutto senza buoni né cattivi.
In Sicario di Denis Villeneuve apparentemente troviamo tutto quello che ti aspetti in un film simile: cadaveri, sparatorie e attentati, il prevedibile balletto di narcotrafficanti e poliziotti federali che si tendono trappole a vicenda. Quel che invece non si trova, e si cerca invano dall’inizio alla fine, è una linea di demarcazione etica a partire dalla quale ripartire i personaggi in figure più o meno coinvolgenti; manca insomma il muro portante del cinema di genere, la bussola morale capace di orientare la nostra posizione all’interno del film.
L’unico personaggio esente da colpe, quello dell’agente della Cia interpretato da Emily Blunt, replica la condizione dello spettatore, condannato al ruolo di puro osservatore, smarrito e impotente, vittima di una visione incapace di trascendere la letteralità degli eventi, in balia di figure ambigue ed indecifrabili. Per un po’ la sua posizione nel film ricorda quella di Jessica Chastain in Zero Dark Thirty: la frustrazione dell’attesa, la voglia di agire neutralizzata dalla complessità della situazione. Qui tuttavia all’orizzonte non c’è catarsi, né riscatto femminista: la Cia è li’ semplicemente per autorizzare operazioni federali che, in territorio messicano, sarebbero altrimenti impraticabili, poiché ampiamente al di là della legalità.
Della ferocia dei narcotrafficanti vediamo gli effetti (cadaveri mutilati che penzolano per le strade di Juarez) e sentiamo racconti orripilanti, ma in realtà nel film a sparare e uccidere sono sempre gli agenti, perché anche Villeneuve opera una mutilazione, questa volta sul corpo del cinema di genere, tagliando fuori dal film le atrocità che potrebbero dare un senso alle operazioni di polizia (e allo sguardo dello spettatore).
Percorre il poliziesco a ritroso, contro mano, trasformandolo gradualmente in una cupa vicenda di rancori personali e vendette private che alzano il sipario su un palcoscenico di crudeltà assortite quanto insensate; un teatrino di marionette sanguinarie che, spostandosi da una parte all’altra del confine (nel senso sia geografico che etico del termine), si massacrano a vicenda per pareggiare i conti, per vendicare un torto, ormai completamente immemori del motivo (reprimere l’uso della droga, vanificare i suoi profitti) che ha dato inizio allo spettacolo.