Immagini. E parole che descrivono le immagini. Da una parte ciò che vediamo, o dovremmo vedere, dall’altra ciò che una voce – una persona con la sua storia, una soggettività, un’interprete (un’interpretazione) – suggerisce di vedere e immaginare.
Il nuovo film di Naomi Kawase è tutto giocato su questa dialettica. Che in un certo senso fa pensare a come si sta trasformando il suo cinema, a cosa vorrebbe diventare. Sempre meno estatico ed ermetico, sempre meno misterioso e rigoroso (la lirica essenzialità che ci ha fatto innamorare del suo cinema), oggi sembra attraversato dall’ansia di “spiegarsi meglio”, dalla volontà di uscire dal circolo ristretto degli iniziati che officiano il suo rito ai festival da una ventina d’anni almeno, dal bisogno di riflettere sulla propria ricerca e il proprio modo di comunicare.
La protagonista di Radiance, Misako, che realizza audio-descrizioni cinematografiche per non vedenti, incontra un celebre fotografo quasi completamente cieco, che ancora porta con sé l’amata macchina e scatta foto che non può vedere. Lei ha un talento particolare quando si tratta di raccontare un’immagine, ma c’è qualcosa che continua a sfuggirle, che non riesce a vedere e capire. Lui, che invece sapeva guardare-fotografare il mondo come pochi, ora non riesce più a vederlo e accettarlo.
Qual è il mondo che la Kawase offre al loro e al nostro sguardo, più o meno cieco? Quello che ci regala da sempre attraverso il suo cinema: la fragilità della vita, la transitorietà delle cose del mondo, il rapporto con la natura, il mistero della realtà. Il film dentro il film, quello che va descritto, raccontato a chi può solo immaginare (ma non è un vedere anche quello?), parla di un addio, un uomo anziano “insaziabile d’amore” che deve rinunciare alla persona a cui è più legato al mondo (la bellezza di ciò che sta per scomparire). La storia di Misako, quella che andrebbe semplicemente guardata e sentita, racconta invece di una madre che sta perdendo la memoria (sta scomparendo) e la fatica di accettare la scomparsa del padre.
C’è sempre qualcosa di troppo (o di troppo poco) nella descrizione-interpretazione che Misako dà del film. C’è qualcosa che le sfugge. E il sospetto è che propria quella cosa sia l’essenziale. Come si fa a guardare davvero? Come si fa a capire se sto vivendo invece di lasciarmi vivere, se sono in armonia col mondo e la realtà o la sto solo attraversando e interpretando fino al punto di non vederla più? Aiuta, a volte, chiudere gli occhi e provare ad ascoltare. Aiuta capire che bisogna “lasciare andare”. Solo allora, quando lo sguardo (il cuore) si apre, e provi a sentire anche ciò che gli altri stanno sentendo, e cerchi di stare dentro la storia con tutta la tua storia, si può compiere il “miracolo” (del cinema?).
La luce è realtà, che disegna i volti e gli oggetti, che nasconde o rivela, ma è anche simbolo (esistenziale e cinematografico). E il cinema di Naomi Kawase, che forse ha perso confidenza nella sua capacità di dire senza spiegare, non ha però perso la grazia, la bellezza, la semplicità. Più prosaica, forse, ma sempre necessaria.