Nel formato stretto scelto da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch per la trasposizione di Le otto montagne di Paolo Cognetti c’è una scelta stilistica e produttiva chiara (e lodevole): evitare la deriva del film illustrativo e la celebrazione della bellezza paesaggistica della Valle d’Aosta. C’è, ancora, l’intenzione di girare un film d’autore da un romanzo premio Strega per proiettarlo – a partire dalla coproduzione che riunisce Italia, Francia e Belgio – in una dimensione il più possibile europea; un film che contenga sì il fascino della vita ad alta quota, tra paesini in pietra, alpeggi, sentieri, cime da conquistare, costretto però nei limiti autoimposti di un’immagine che non allarga i bordi e resta concentrata sullo spazio occupato dai personaggi.
Pietro e Bruno, i protagonisti del film, il primo bambino di Torino che passa le vacanze nella bassa Valle d’Aosta, il secondo figlio di un montanaro partito per lavorare come muratore e affidato agli zii malgari, amici d’infanzia e poi di giovinezza ed età adulta dopo essersi persi di vista durante l’adolescenza, si muovono in direzioni opposte – l’uno fuggendo dalla propria famiglia, dal padre e delle stesse montagna che da bambino lo avevano accolto, arrivando poi a trovare sé stesso nel lontanissimo Nepal, l’altro scegliendo invece di restare a vivere in vetta, prima coltivando il sogno di diventare anch’egli malgaro, uomo innamorato e padre di famiglia, poi adattandosi a una vita di solitudine e privazioni – annullandosi in qualche modo a vicenda e incontrandosi solamente nello spazio fisico della baita costruita insieme e in quello ideale delle inquadrature strette che li vedono sempre perfettamente incorniciati (con un effetto magnetico dovuto soprattutto alla presenza stentorea di Luca Marinelli e Alessandro Borghi, bravi a restituire il valore universale dei loro personaggi, meno a trovare inflessioni vocali credibili).
La stessa chiave anti-drammatica della sceneggiatura, nonostante l’arco narrativo che copre un periodo che va dal 1984 ai giorni nostri, indugia su situazioni ripetitive (la spensieratezza dei pomeriggi d’estate in montagna, la costruzione della baita, per l’appunto, e poi le tante sere passate a parlare sotto il cielo stellato) e lavora invece d’ellissi nei momenti decisivi (la morte del padre di Pietro, la storia d’amore tra Bruno e Lara, le esperienze di Pietro in Nepal), cogliendo in questo modo della vita di montagna soprattutto l’ampiezza, l’estensione, l’impossibilità di ricondurla a qualsiasi principio razionale e produttivo, proprio della vita in città che in inverno annoia Pietro, della società capitalista che ingoia la vita del padre del ragazzo e della stessa economia narrativa di un romanzo che rifugge una struttura classica.
Van Groeningen e Vandermeersch, marito e moglie, espressione di un cinema europeo anonimo eppure raffinato (con il peccato mortale di usare troppe ballate indie folk in colonna sonora), fanno di tutto per togliere le cime della Valle d’Aosta, ampiamente mostrate ma mai celebrate, da una cornice estetizzante e descrittiva, così come evitano nella relazione tra Pietro e Bruno qualsiasi ombra di sentimentalismo: i piani frontali, i lenti movimenti in avvicinamento della macchina da presa, i campi lunghi su prati e laghi creano un’atmosfera di sospensione, di estatica osservazione e astrazione quasi simbolica (in fondo è la storia psicanalitica di un figlio che abbandona il padre e di un padre che abbandona la figlia, come si sente dire verso la fine...), che se da un lato accentua l’idea della montagna come rifugio, come unica, possibile alterità al caos dell’esistenza, dall’altro elimina l’elemento altrettanto fondamentale della fatica fisica come condizione inevitabile e necessaria.
Accentuando il carattere a volte eccessivamente declamatorio del romanzo – ma per contro restituendone bene il tono malinconico e dolcemente rassegnato – Le otto montagne usa la voce narrante di Pietro come una guida, rendendo espliciti i suoi pensieri, spiegando in modo fin troppo didascalico i nodi cruciali delle vite dei due protagonisti (compresa la spiegazione del senso del titolo), sottolineando simboli e metafore che poco alla volta si dispiegano e dilatando la durata del film ben oltre le due ore… La letterarietà rifuggita come narrazione torna perciò come riflessione, finendo per togliere forza a una messinscena sicura di sé e fin troppo calibrata, come lo scheletro di un rigore stilistico un po’ fine a sé stesso.