“Il tempo è il vostro peggior nemico”, dice ai suoi allievi il nuovo istruttore di volo Pete "Maverick" Mitchell, riferendosi alla pericolosità della missione da compiere: un secondo di troppo può essere fatale se si vuole uscirne vivi, evitando di schiantarsi sulla parete rocciosa o di finire abbattuti dalla contraerea, dopo aver demolito una base segreta di uranio.
Ma quella frase potrebbe valere anche per il film stesso e per il suo ideatore Tom Cruise, per la mission impossible di tornare dopo più di trent’anni nei panni di Maverick.
Il confronto con il tempo che passa – per i personaggi, per gli spettatori, per il cinema, e persino per Tom Cruise – viene subito accennato nel dialogo tra Maverick e il suo superiore (Ed Harris) che lo provoca: «La tua specie è in via d’estinzione, presto gli aerei non avranno più bisogno dei piloti». Tuttavia, quello che avrebbe dovuto rappresentare il tema-chiave del film non può essere sviscerato fino in fondo perché Maverick è rimasto pressoché uguale a come lo avevamo lasciato al termine del primo Top Gun. Certo, ora assume il ruolo di caposquadra e una dimensione quasi paterna nei confronti del figlio dell’amico Goose. Ma dall’inizio alla fine Maverick è sempre il più veloce, il più forte, il più coraggioso, il miglior pilota per distacco sugli altri, come se per tutto quel tempo avesse continuato a volare e vivere in una bolla.
Eppure un modello a cui ispirarsi Tom Cruise lo aveva potuto osservare da vicino. Era il 1986, proprio lo stesso anno di uscita di Top Gun, quando recitava in Il colore dei soldi di Martin Scorsese al fianco di Paul Newman, che riprendeva il personaggio dello spaccone Eddie Felson, fenomenale giocatore di biliardo. Dopo venticinque anni, però, Eddie “lo svelto” era cambiato, aveva fatto i conti con la vita e con l’età. E quando ricominciava a giocare, non era più il migliore. Solo nell’ultima scena tornava per un attimo quello di un tempo, scommettendo di battere il giovane Tom Cruise pur sapendo che non ce l’avrebbe fatta.
Maverick, al contrario, non attraversa quell’evoluzione, e il tema del tempo si riduce a un effetto nostalgia nei momenti che richiamano il film originale, con risultati a volte suggestivi (l’incontro tra Maverick e “Iceman”/ Val Kilmer malato) e altre al confine col ridicolo (la partita di football americano in spiaggia che cita quella di beach volley).
Per il resto, se il Top Gun di Tony Scott era girato come un lungo spot pubblicitario, quello di Kosinski sembra ammiccare al documentario sportivo, ma del genere più patinato dove il campione di turno è atteso all’ennesima impresa della carriera. Tom Cruise come Cristiano Ronaldo: sorriso smagliante, carisma glamour, longevità e cura maniacale del corpo, personalità egoriferita che talvolta rischia di offuscarne il talento attoriale (e se non fosse stato dotato, non avrebbe lavorato per registi come Kubrick, Scorsese, Coppola, P. T. Anderson, Spielberg, Mann...).
Di sicuro, Cruise conosce le regole del cinema e dell’action movie. Il suo Top Gun: Maverick riesce comunque a decollare e, nonostante qualche sbandamento (come la storia d’amore piuttosto superflua), arriva a destinazione, spinto dall’adrenalina delle straordinarie sequenze di riprese aeree, e da una dose misurata di ironia nella sceneggiatura.
E il momento in cui Maverick si alza in volo su un vecchio F-14, affrontando in una sfida impari i caccia di ultima generazione, diventa l’occasione per riflettere sul cinema di oggi e di ieri, sulla sua capacità forse esaurita di creare miti nella cultura pop. Perché l’impatto di Top Gun negli anni Ottanta non è replicabile? Non è chiaramente una questione di qualità cinematografica, il film di Scott era il manifesto smaccato dell’America reaganiana, mescolava romanticismo kitsch e propaganda militare, alla vigilia della vittoria nella Guerra Fredda.
Com’è cambiato il mondo? E come siamo cambiati noi e il cinema?
Quando all’inizio del film Tom Cruise indossa gli occhiali da sole a goccia e la giacca di pelle prima di salire sulla moto, la musica originaria di Moroder è ancora in grado di produrre un brivido, mentre la sensazione è che la canzone finale di Lady Gaga sia già dimenticabile durante i titoli di coda.