Quello che dovremmo sempre esigere dai film in concorso a Cannes non è soltanto che raccontino una bella storia, ma che si pongano una domanda sullo statuto dell’immagine cinematografica nel presente. Cosa vuol dire guardare l’immagine, ed esserne guardati. Lo fanno Megalopolis di Coppola, Caught by the Tides di Jia, Oh, Canada di Schrader, in qualche modo contorto anche Parthenope di Sorrentino, Marcello Mio di Honoré e The Shrouds di Cronenberg. Lo fa più di tutti Leos Carax, anche se C’est pas moi (e même pas Godard). Invece pare che la questione più importante sia cosa vuol dire (o meglio: come sia giusto) guardare la donna, ed esserne guardati, cioè giudicati.
La protagonista di Parthenope potrebbe scriverne la sua tesi di dottorato in antropologia visuale, solo mettendo a confronto il catalogo di donne guardate a Cannes, messe a confronto con il male gaze, e da esso concupite. In fondo lo sguardo più lubrico, più del fratello, di John Cheever, dell’Avvocato, del mafioso, del vescovo, è proprio quello del suo professore di antropologia.
Elisabeth/Sue di The Substance (lo sguardo feticistico), Emma di Oh, Canada (la necessità di essere guardati dalla donna, per espiare la colpa), la moglie di The Shrouds (lo sguardo necrofilo), Emilia di Emilia Pérez (la transizione dello sguardo), Chiara di Marcello mio (lo sguardo allo specchio), le colone e le native di Horizon (lo sguardo del cinema – western – classico), Furiosa (lo sguardo naive), Barbie di Ma vie ma geule (lo sguardo psicotico), Liane di Diamant brut (lo sguardo voyeuristico della società dello spettacolo), Bailey di Bird (lo sguardo attaccato della donna sulla donna), Elena di Limonov (lo sguardo escapista e codardo), Emma Stone e Margaret Qualley di Kinds of Kindness (lo sguardo sciocco e svogliato), Karin di Ghost Cat Anzu (lo sguardo del gatto).
Sotteso a tutti questi sguardi, che sono ripetitivi nell’enunciazione come sono estenuanti nella progettualità autoriale (consapevole, obbligata, dedotta), c’è un senso di colpevolezza: mentre si dovrebbe riflettere sul fatto che il vero peccato è guardare l’immagine (C’est pas moi, come spiega Pietro Bianchi), perché la si esaurisce, è più semplice espiare collettivamente il peccato di guardare la donna.
Ecco perché è ravissante, very funny (come dicono ossessivamente i personaggi, in debito di tenuta), Anora di Sean Baker.
Anora, Ani, è una giovane donna congelata nel meccanismo voyeuristico del peep show (e quindi del cinema): si esibisce ballando seminuda in un locale, l’HD, Headquarters, quartier generale della visione. Guardare ma non toccare: di fronte a un mondo di uomini impotenti sessualmente ma economicamente dotati, è l’unica che possiede il fallo. La sposa per gioco il figlio idiota di un oligarca russo, Vanja, sperperatore ed eiaculatore seriale; come cantava Federico Leonardo Lucia: pensavo fosse amore e invece era una escort.
Baker, fin dal sorprendente Un sogno chiamato Florida (presentato alla Quinzaine nel 2017) è portatore sano di un immaginario plasti(fi)c(at)o da parco dei divertimenti, come Ani, che vorrebbe fare la luna di miele a Disneyland). Già nella prima parte, prima dello scoppio del fuoco d’artificio diegetico, si gode (non è plaisir, facile, ma jouissance, destabilizzante) del ribaltamento dell’immagine: prima l’inquadratura è tutta piena di corpi, culi e tette (Ani come oggetto), poi di feste, Las Vegas, vestiti, soldi, bottiglie, matrimonio, senza culi e tette (Ani come soggetto).
Prima guardiamo Ani, poi Ani ci guarda (mentre la stiamo guardando guardare). E Baker ha un’attenzione cristallina nel non sovrapporre mai il nostro sguardo a quello di Vanja, nel non regalargli mai una soggettiva, nemmeno un campo e controcampo, sempre inchiodato al centro dell’inquadratura, attaccato a Ani, inesistente senza di lui, castrato nella possibilità di dare un regime alla realtà. Non ha controcampo su di lei (desiderio del maschio bambino) come sul videogioco che sta giocando (desiderio del bambino maschio), e ci dispiace che l’inglese to play (o jouer) in italiano non abbia la stessa ricchezza semantica. Il suo sguardo è totalmente inutile, impotente, senza fallo (forse anche un po’ troppo facile che sia così rapido, ma lei gli insegna a consumare l’atto sessuale con calma).
Quando la macchina del racconto è pronta, a Baker rimane la strada del dramma, narrativamente celibe, sterile, inutile come i blocchi di cemento di fronte ai quali viene parcheggiata un’auto (poi rimossa, e disincastrata). Ne imbocca un’altra, quella della commedia, del comedy. E parte una sarabanda da Fuori orario di Scorsese e Tutto in una notte di Landis, con il ritmo dei Safdie, la demenza di Una notte da leoni.
Ani, il factotum armeno Toros, il dolce scagnozzo Garnik e il gopnik Igor, devono gestire la sovrana incazzatura dei genitori di Vanja, trovarlo dopo che è scappato, organizzare l’annullamento del matrimonio. Ani si ribella, morde, prende a calci, grida. Dalla New Hollywood alla commedia dell’arte: chissà se Baker ha davvero di queste letture colte…
A poco a poco si rivela lo sguardo maschile più importante di tutta questa edizione, quello del gopnik, di Igor. Da wikipedia: «In particolare si riferisce a giovani appartenenti alle classi sociali più basse: incarnano la apocalisse sociale legata al crollo delle tradizioni della Russia sovietica e al degrado culturale e materiale derivato dal mancato adattamento a tale cambiamento». Lo chiama così Ani, ripetutamente, ossessivamente, e insieme lo oltraggia come sessualmente non adatto a lei (frocio). È Arlecchino. Il servitor dei due padroni, l’anima della commedia, il salvatore della donna. La parte del confronto con i genitori a Las Vegas, l’annullamento del matrimonio, è fin troppo didascalica, ma serve solo a risolvere le esigenze del racconto (Baker sa che si è pagato un biglietto per il parco dei divertimenti) e a lasciare Ani e Igor da soli a casa, a parlare, di nulla. Di loro.
Igor è sempre più presente, antitesi del maschio voyeurista dell’inizio (sono bellissime, e dolcissime à rebours, le scene in cui la tiene sopra di sé, legata, tentando disperatamente di controllare la sua erezione), conquista spazio, battute, racconto. Igor emerge a poco a poco in montaggio, e in controcampo ad Ani, la sintassi del film ce la fa finalmente vedere dal suo punto di vista.
Arlecchino ruba l’anello, Arlecchino porta la sua amata a casa, Arlecchino la accompagna a casa, sfinita, fallita, sconfitta, distrutta. Non è Cinderella (citata) e nemmeno una nemesi di Pretty Woman, perché alla fine della commedia non c’è riscatto, non c’è redenzione, non c’è futuro. Arlecchino (diavolo di un Baker…) la fa entrare nella sua inquadratura, nella macchina della nonna, si fa sbottonare i pantaloni, cerca di baciarla. E poi la abbraccia e la lascia piangere.
«Mi avresti violentata…Perché?» Perché se ti amo.
Di tutti gli sguardi sulla donna, e sull’immagine, scelgo quello di Igor, del gopnik, di Arlecchino.