Uno dei temi di questo festival è stato senz’altro quello di alcuni registi che hanno deciso di mettersi nel ruolo di spettatori di sé stessi e riguardare le proprie immagini. È un’esperienza che facciamo tutti, quando vediamo le nostre vecchie fotografie e ci accorgiamo che svelano qualcosa di noi o del mondo che non ci ricordavamo o che forse non avevamo nemmeno mai visto. Ma naturalmente per chi ha passato la vita a creare immagini questo effetto è moltiplicato, e soprattutto svela una dimensione che va ben al di là della propria esperienza personale (come si vede nel bellissimo Caught by the Tides di Jia Zhang-ke).
«Où en êtes-vous, Leos Carax ?», dove si trova ora Leos Carax? È la domanda che era stata posta a Carax a partire da una mostra che avrebbe dovuto essere allestita al Centro Pompidou ma che per motivi che non ci vengono svelati, è stata annullata. Quello che doveva venir fuori da questa domanda, e cioè un video-saggio di una quarantina di minuti, è però rimasto, ed è stato presentato a Cannes nei giorni scorsi nella sezione Cannes Première. C’est pas moi, cioè non sono io quel Leos Carax di cui parlate. O forse non sono nel luogo dove lo cercate, sembra dirci il regista di Gli amanti del Pont-Neuf, che costruisce con questo piccolo splendido film un percorso tra immagini personali, quelle dei suoi film o più semplicemente della storia del cinema, secondo il principio secondo cui tutte le immagini vivono in un certo qual modo nella memoria in modo indistinto. Carax (che all’anagrafe per altro fa Alex Christophe Dupont) si è sempre mosso tra una furia iconoclasta (un élan vital, come recita il primo capitolo del film) di matrice avanguardista e una sublimazione dell’immagine assoluta quasi inattuale, come in quella splendida soggettiva di Juliet Binoche presa da Mauvais Sang (“l’unica soggettiva che io abbia mai girato”) che vediamo a un certo punto del film.
E forse è proprio questa natura un po’ atipica e interstiziale del suo cinema e del suo sguardo che rende questo film così interessante, nonostante l’impressione a prima vista sia quella di vedere un riadattamento quasi scolastico del dispositivo del video-saggio godardiano post-Histoire(s) du cinéma, con la ricontestualizzazione di frammenti di film, la voce che commenta fuori campo, e la sovraimpressione di parole in digitale (che spesso compongono e scompongono frammenti di discorso e giochi di parole).
Carax dice a un certo punto che le palpebre di una persona adulta sbattono sull’occhio tra le 15 e le 20 volte al minuto, che equivale a circa 15-20mila volte in un giorno. Se non lo facessimo, i nostri occhi si seccherebbero e finiremmo per diventare ciechi. Per vedere insomma, dobbiamo chiudere gli occhi. Per riuscire davvero a guardare, abbiamo bisogno ogni tanto anche del buio, anche dell’assenza di immagini. Oggi, ci dice Carax, sembra che il flusso di immagini sia tale che questo atto minimo di presa di distanza sia diventato impossibile, segno che vediamo sempre di più, ma riusciamo a guardare sempre meno. Ci viene in mente quella frase di Paolo Cherchi Usai in The Death of Cinema secondo cui una società che è sempre più schiava dell’incubo di una memoria visuale assoluta, non ha più bisogno del cinema.
Perché il cinema non è solo l’arte della persistenza dei fantasmi del passato nel presente. È anche una pratica di distruzione delle immagini (che ogni volta che vengono messe nel proiettore fanno un passo in più verso la loro scomparsa). Il cinema è allora la continua decisione di preservare alcune immagini e non altre: di rallentare per alcune il loro percorso verso la morte, mentre di accelerarlo per altre.
Sembra una riflessione incredibilmente demodé e novecentesca per la nostra società del digitale, figlia dell’incubo della memoria assoluta e del rigetto della morte, ma Carax non nasconde il suo essere un prodotto del Novecento: anzi, lo rivendica esplicitamente paragonandosi al più indicibile dei registi contemporanei, e cioè Roman Polanski. Ma lo fa, godardianamente, anche riflettendo sul buco nero del cinema del novecento, e che fu un’ossessione dello stesso Godard: il rapporto tra le immagini e l’Olocausto (girando una sequenza inquietante dove una mamma racconta una fiaba sulla soluzione finale nazista a dei bambini terrorizzati con gli occhi sbarrati).
Incrociando Muybridge, F.W. Murnau, Jean Vigo, Fritz Lang, e lo stesso Godard, insieme a Nina Simone, David Bowie, i Fall, oltre ai suoi Boy Meets Girl, Holy Motors, Rosso sangue e all’immancabile Monsieur Merde, C’est pas moi finisce allora per abitare questo registro di mezzo dove il regista si sovrappone allo spettatore, e dove il creatore di immagini diventa colui che le guarda, le commenta, le manipola: e facendolo guarda sé stesso, forse non riuscendo nemmeno troppo a trovarsi e a risolvere il bandolo della matassa (appunto C’est pas moi, perché le immagini diventano un labirinto senza uscita).
Che poi, se ci pensiamo, non è forse questa una delle esperienze che definiscono nell’essenza l’esperienza cinematografica già dalle sue origini? Forma d’arte dove è il regista stesso – lo diceva anche Deleuze – a sorprendersi di quello che la macchina da presa guarda al suo posto? Dove l’artista viene detronizzato per lasciare spazio all’operatore: colui che pur non essendo capace di dipingere, o dare forma alla materia, aziona la macchina per poi guardare quello che ne è venuto fuori. E che nel farlo finisce per vedere qualcosa che lo angoscia: come dice Carax, non esiste bellezza senza una macchia.