Liane ha 19 anni, e vive a Fréjus, al piano meno nobile della Costa Azzurra, fatto di centri commerciali, vegetazione bruciata dal sole e stuprata dalla viabilità extra-urbana e dall’edilizia popolare, mentre un po’ più in su ci sono i palazzi, set di shooting fotografici, feste, dimore di principi borghesi. Nel suo presente ha qualche lavoretto precario, un’attività intensa di borseggiatrice e decine di migliaia di follower sui social network. È una influencer (dice di sé), anzi un’influenceuse (come dicono i francesi). Nel suo destino ha lo stallo, la frustrazione, lo scacco, che condivide con le amiche, la madre divorziata e mantenuta, probabilmente anche con la sorellina. Nel suo futuro vuole un posto da concorrente nel reality Miracle Island, che si intuisce un ibrido tra L’isola dei famosi, Temptation Island e Too Hot To Handle.
Liane costruisce su di sé una topografia stratificata di falsificazioni e mistificazioni, come un collage: si è rifatta il seno l’anno prima, qualche punturina di acido ialuronico alle labbra (ma costa troppo, e si risolve anche con il vecchio metodo del tappino di plastica…), capelli tinti, extension, unghie finte, lunghissime e piene di brillantini, passaggi e passaggi di make-up, rossetto, smalto, lenti a contatto. E poi reggiseni, corsetti, magliette, vestiti, shorts, e scarpe, tantissime scarpe, su cui incolla le pailettes più preziose rubate dai capi che prova nei negozi. È un atlante sociale del white trash europeo post-adolescenziale. L’unica cosa vera di sé rimangono le impurità della pelle, che si gratta via ossessivamente sotto la doccia, e il sangue delle piaghe ai piedi martoriati dai tacchi.
Liane è una Cinderella con casa di proprietà (ma la madre-matrigna rischia di farsi sbattere fuori perché non paga l’affitto), adescata da una fata cattiva (la direttrice del casting) e fuori campo (la sentiamo in voice off, o via messaggi vocali su WhatsApp) che le promette fama e fortuna a patto di essere sexy e di impegnarsi in una relazione durante il programma, e poi le fa credere di essere “eletta”, scelta, baciata dalla sorte, una su un milione, senza spiegarle che quella scarpa con la zeppa in realtà la potrebbero indossare tutte.
La regista esordiente Agathe Riedinger ha per le mani un contenuto incandescente: la possibilità di raccontare una dimensione femminile indiziaria del presente, il mondo dei social network, quello del reality televisivo (vale la pena ricordare il Reality di Matteo Garrone, in concorso a Cannes nel 2012).
Il problema è che in questo frame narrativo e socio-culturale in cui ciò che conta è soltanto essere guardati, Riedinger non (di)mostra di possedere uno sguardo. L’estetica è dolorosamente derivativa, a metà tra i codici più corrivi del cinema arty e il videoclip rap di ultima generazione (la carrellata costante di primi piani sembra un’estensione solarizzata di Talking/Once Again di Kanye West diretto dai fratelli D’Innocenzo).
Corpi e capelli inondati dalla luce pomeridiana, rallenty, piccoli tableaux vivants insertati nel flusso diegetico, l’ossessivo controcampo del clavicembalo (efficace solo nella scena del trucco) a commentare in musica (alta) il regime basso del contenuto visivo, e inconsapevolmente dell’immagine. La società, e il tempo, dell’immagine (non malgé ma au lieu de tout), per paradosso non possiede un’immagine autentica, nuova, indiziaria. E nemmeno, per usare uno stereotipo malsano in sede di analisi ma abusato in quella di promozione, un’immagine femminile. Lo sguardo di Diamant brut è povero, e maschile. Sia quando assorbe il regime voyeuristico, sia quando, per contrasto, lo annichilisce nella de-sessualizzazione del corpo di Liane (e anche questo è contemporaneo, colpevole, e maschile). Non solo Liane non pratica il sesso, quasi che il suo statuto di personaggio femminile sofferente ma votata al desiderio scopico dell’Altro la costringa a una castità forzata, ancora da eroina delle favole, ma Liane non ha il sesso, perché la ripresa della rasatura del pube (ovvero farla vedere sotto la doccia) nasconde il pube. Piatta, bianca, lucida, Barbie.
Anche i lubrici principi azzurri che la pagano per ballare di fronte a loro, e che in quel pube coperto dall’intimo provocante affondano il naso, adoranti, si ritraggono dallo stupro, la lasciano andare, scappare, a mezzanotte. E meno che bene va al principe grigiastro (un po’ topino Gas Gas) che di lei è innamorato, e che per lei comprerebbe palace (una villa in collina e in costruzione, bloccata per fallimento), si procura carrozze (una Gallardo gialla), le sfila le scarpette scomode di cristallo, e la lascerebbe volentieri in sneakers, accontentandosi del suo pezzo di corpo meno vero (il seno, mostrato, appena sfiorato). Senza un’immagine, Riedinger assuefa il cinema alla dittatura dei social network, e mette in cartello i messaggi di WhatsApp.
Liane, tesoro, eri un personaggio fantastico, ma non hai trovato la tua smemorina.