Kinds of Kindness è il primo film che Yorgos Lanthimos firma da superstar assoluta: arriva infatti da un Leone d’oro a Venezia e da una notte agli Oscar vissuta da protagonista grazie a Povere creature!, film che l’ha consacrato definitivamente anche al di fuori della bolla cinefila. Kinds of Kindness non prosegue però il percorso artistico intrapreso con La favorita e confermato dall’avventura di Bella Baxter: nonostante sia stato girato proprio durante la post produzione di Povere creature!, segna piuttosto un ritorno allo stile freddo e calcolato con cui il regista greco si affermò una decina d’anni fa.
Questo “passo indietro” non sorprende più di tanto; Lanthimos ha semplicemente confermato come l’estetica delle sue opere segua pedissequamente lo stile di scrittura su cui il film si poggia. La sua carriera fuori dalla Grecia si può in questo senso suddividere in due idee di cinema distinte e concettualmente diverse. Se da una parte The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro, entrambi sceneggiati da Efthymis Filippou (sodale a Lanthimos dai tempi di Dogtooth) rappresentano l’espansione del suo cinema iniziale, dall’altra La favorita e Povere creature!, sceneggiati da Tony McNamara, diventano una deviazione evidente da quel modo di inquadrare i personaggi e il mondo che li circonda. Due dittici quasi speculari, che mettono in dialogo tra loro corpi morti imprigionati in sistemi sadici, osservati in modo glaciale dallo sguardo onnipotente dell’autore e abitati da personaggi pieni di vita ed energia, lanciati contro quello stesso sistema alla conquista di nuovi spazi e nuovi sguardi.
Kinds of Kindness si colloca nel mezzo di questi due filoni: la sceneggiatura di Filippou riporta la regia di Lanthimos nella sua posizione privilegiata di osservatore sadico e cinico, che inquadra con distacco emotivo le spirali autolesioniste in cui si inabissano i sui personaggi; la presenza di Emma Stone, invece, porta con sé quella vitalità propria della seconda fase. Esteticamente il film non presenta gli elementi degli ultimi film su cui Lanthimos aveva fatto leva per distorcere il suo mondo; nonostante questo, i corpi di Kinds of Kindness ballano di fronte allo schermo e lottano per inseguire quella che, secondo il loro modo (perverso) di vedere, è la felicità.
Sviluppato su tre episodi (più un epilogo), Kinds of Kindness affronta da altrettante angolazioni – lavoro, amore, fede – alcune delle tematiche più ricorrenti in tutto il cinema del regista greco come il potere, la sottomissione e la manipolazione. Nel film lo stesso gruppo di attori (su tutti Emma Stone, Willem Dafoe, Jesse Plemons e Margaret Qualley) recita ruoli diversi per tracciare le traiettorie di personaggi che cercano di realizzare se stessi provando a trovare la propria collocazione all’interno di un sistema malato e perverso. La struttura narrativa dei singoli episodi è simile anche nelle conclusioni, e tutto sommato aggiunge poco a quello che Lanthimos e Filippou hanno raccontato in passato.
Il fulcro del progetto va forse ricercato nella moltiplicazione dei punti di vista per raccontare la morte, la fine e il potere. Se lo stile provocatorio di Lanthimos è funzionale quando si tratta di inquadrare con sguardo grottesco le dinamiche di dominio nel mondo del lavoro e la tossicità delle relazioni di coppia, risulta più gratuito e meno puntuale quando la narrazione si sposta sul tema della fede.
Ed è proprio al termine dei titoli di coda dell’ultimo episodio che Lanthimos decide di imporsi in maniera diretta ed esplicita, con un intervento quasi divino che spariglia le carte ancora una volta, prendendosi gioco in modo sadico dei suoi personaggi. Con una semplice intromissione, il regista si palesa per esercitare il proprio potere sulle aspettative degli spettatori, dichiarando ancora una volta che lui è il deus ex machina e noi siamo solo pedine sottomesse al suo volere: sta al pubblico decidere se credere o meno in questo Dio.