Dopo la deviazione nell’Inghilterra Tudor di Firebrand (2023), Karim Aïnouz è tornato al melodramma brasiliano, il genere che l’aveva rivelato con La vita invisibile di Eurídice Gusmão, vincitore del premio Un Certain Regard.
Girato in 16 e 8 mm, con una produzione ridotta al minimo, sembra richiamarsi alla pornochanchada degli anni ‘70, per l’immaginario visivo, il regime surreale di fondo e la pretestuosità delle vicende in favore della mostrazione (sporca, laida, sudata) dei corpi, ma con la potenza di un porno-noir come la graphic novel Black Kiss di Howard Chaykin. Siamo sulle spiagge atlantiche dello stato di Ceará, vicino a Fortaleza, famose per la sabbia bianca, il vento che attira gli appassionati di kite surf, la vegetazione lussureggiante a ridosso del mare, e il turismo sessuale. L’aria, come l’immagine, sembra trasudare passione, oltre che essere satura della traspirazione corporea. Heraldo è un ventunenne nero (bronzado viene chiamato), che sbarca il lunario lavorando per Bambina, ras della criminalità locale e pittrice di grandi quadri di art brut. Insieme al fratello, dovrebbe raccogliere il pizzo da un negoziante (il Francese), ma la sera prima trova una donna, la porta al Motel Destino, ne viene rapinato, arriva in ritardo all’appuntamento, causa la morte del fratello, viene inseguito dai mafiosetti e dalla polizia, torna al Motel Destino. Ci rimane.
Dentro e fuori, a livello spaziale e cronologico, si aprono due film, che fluttuano uno sull’altro come memoria sull’esperienza, sogno sulla veglia, allucinazione sulla realtà. Al Motel, Heraldo trova la coppia dei proprietari, Helias e Dayana e a loro si aggiunge, nella gestione della grottesca routine quotidiana: serpenti nelle vasche da bagno, uccelli morti in piscina, cadaveri da bruciare (il Francese, vendicato), deiezioni corporee da pulire e sex toys da vendere. Ma soprattutto diventa il diaframma del desiderio di entrambi, come in un remake (ancora: sporco, laido, sudato) di Ossessione di Luchino Visconti o Il postino suona sempre due volte di Bob Rafelson.
Aïnouz ha trovato nel (vero, si presume) Motel Destino una location naturale incredibile, come una foresta lussureggiante di cemento, che ha poi riempito di dettagli, con le sue stanze illuminate al neon (rosso, blu, viola), la biancheria arancione e blu elettrico, i corridoi con feritorie (le camere vengono chiuse da fuori, per non far scappare i clienti, o peggio), le lame di sole che esaltano i cromatismi caldi degli esterni, i quadri di Bambina alle pareti. Su tutto aleggia il rumore (un sottofondo continuo di gemiti, mugolii, grida, esalazioni ed esaltazioni), si intravede l’immagine (spiata, e per questo, deformata da un filtro che la spappola), e sembra di percepire anche l’odore, del sesso. Che è sempre perverso o feticista: threesome con strapon, voyeurismo, violenza. Tutti fanno sesso, anche gli asini, in uno stato di febbricitante delirio lynchano, e non casualmente una scritta al neon Silencio viene inquadrata di continuo.
Heraldo passa dal cercare il corpo di Dayana al fuggire a quello di Helias, con lei meditano forse una fuga, forse un omicidio, forse soltanto un’evasione mentale, che passi attraverso il reciproco consumo fisico. Ma fuori dal Motel c’è un altro film e un’altra storia. Emerge nelle primissime sequenze: Heraldo e il fratello che giocano sulla spiaggia, eroticamente ambigui, il desiderio di fuggire e andare a San Paolo, l’impossibilità di sottrarsi a un debito contratto e quindi l’obbligo di delinquere, l’assenza di futuro, la futilità della vita, e della morte. Si intravede in qualche dettaglio: forse l’allontanamento di Heraldo e la morte del fratello non sono stati casuali, ma architettati per ragioni imperscrutabili. E soprattutto ritorna nel ricordo: l’infanzia con un patrigno violento, la morte della madre, la povertà, l’omicidio, la disperazione assoluta.
Tutto questo sta fuori e prima dalle stanze del Motel, che diventano così una sorta di prigione auto-inflitta e liberatoria, un altrove nel quale nascondersi e trovare pace, un sogno per distrarsi dalla realtà e distrarla, ovvero non farsi più trovare dalla realtà. Il desiderio (il rapporto tra Heraldo e Dayana, la pulsione di Helias per Heraldo) è la chiave che chiude lo spazio alternativo del Motel da dentro (al contrario delle camere), ma poi diventa la molla che espelle fuori i protagonisti (la gelosia di un quarto comprimario, che rivela a Helias il tradimento).
L’ultima parte del film è concitata, affrettata, incongruente anche, come la prima, ma ne è controcampo parentetico perfetto e rivelazione del senso più profondo. Folle di rabbia e frustrazione, ubriaco, Helias li porta sulla spiaggia per ucciderli e seppellirli, li costringe a scavare nudi la propria fossa, ma scappano, e lui muore inseguendoli, investendo in auto un cavallo. Assurdo, appunto. Poi Heraldo e Dayana raggiungono la scena dell’incidente, ancora nudi, e viene chiesta loro una dichiarazione dalla polizia. Nel momento diegeticamente più incredibile e ingiustificabile (il più “senza veli”) danno le loro risposte (si svelano): Dayana racconta gli abusi di Helias e di essere stata trattata come un animale da allevamento, Heraldo spiega di aver incontrato la morte già molte volte, e di non averne paura, perché vittima designata della violenza.
Motel Destino (il film), fuori dai suoi confini architettonici (il motel), è una riflessione costante sulla discriminazione di genere e quella razziale in Brasile che costringono il bronzado Heraldo e la bestia Dayana a non poter nemmeno immaginare un futuro insieme. Se non in sogno, su una pellicola che si sgrana.