È eccessivo, barocco, rutilante, bulimico, impastato dell’oro di Napoli e dell’azzurro del Napoli, affamato di De Sica (Il funeralino), di Sofia (chissà, non si chiama così, ma forse le assomiglia, con gli occhiali da sole, la parrucca e gli enormi smeraldi), del miracolo del sangue di San Gennaro, degli anfratti dove siedono le puttane e dei bassi delle famiglie più disperate, delle case antiche sul mare a un passo dalla decadenza e degli hotel dove stazionano scrittori americani blasé, alcolizzati e gay, del mare e della sua ipnotica vertigine, della sua azzurra bellezza. Intessuto, appunto, di bellezza. Non quella Grande, romana e dissoluta, ma quella più stropicciata e stracciona di una città che qualcuno considera morente ma che continua ostinata a vivere nelle proprie strade segrete.
È bello, il film di Paolo Sorrentino, e innamorato della bellezza della sua protagonista: Parthenope, nata bene in una famiglia di armatori, partorita nel 1950 nell’acqua della piscina e legata indissolubilmente al mare, nel quale rispecchia la propria sinuosa mollezza e rintraccia i riflessi dei suoi compagni di giochi. Aperto dall’arrivo, sull’acqua, di una fastosa carrozza regale, Parthenope passa subito al 1968, con la protagonista diciottenne che cammina in città e come lei altre ragazze, sole o in gruppi di due o tre, ragazze in minigonna, ragazze al ralenti, fatte per essere guardate (e ragazzi che le guardano, per lo più fermi). Ecco, questa è Parthenope: immagine di una femminilità che cattura lo sguardo, consapevole e “flirtante”, ma fatta anche di intelligenza acuta, battuta prontissima, sensibilità struggente e indagante della giovinezza. Sorrentino la segue negli anni, l’università, la voglia di fare l’attrice, l’università di nuovo, i primi colpi bassi della vita, la ricerca di altri sguardi, di altri mondi ignoti, i Quartieri Spagnoli, i riti camorristici, l’incontro con corpi “fatti per essere rifiutati” eppure, alla loro maniera, trionfanti. Su tutto, il ricordo di un’estate perfetta, che è durata poco: quando, con il fratello e il loro grande amico da sempre innamorato di lei, fuggirono a Capri, senza un posto dove dormire ma assorbiti dai riti e dai desideri estivi; anche qui, tanti occhi desideranti, tanti abbracci notturni, a volte morenti, tanta voglia di un assoluto definitivo.
Il mare non si ferma, nemmeno la vita, alla quale Parthenope si abbandona, vagante e divagante, senza un progetto. Le cose accadono, anche le scelte accadono quasi automaticamente, le persone scompaiono, gli innamorati se ne vanno, i padri si isolano in un silenzioso gelo; e in Parthenope c’è anche la ricerca sotterranea di una figura paterna, l’incontro con uomini che non possono o non vogliono incarnarla. Sorrentino, che non ha voluto raccontare una donna, convinto che questo non sia il compito di un uomo, ha finito per guardare, sentire, raccontare come una donna, forse istintivamente guidato dall’armoniosa scioltezza della sua protagonista (la brava Celeste Dalla Porta), dalla consapevolezza che Parthenope ha degli sguardi altrui. Ecco allora che ci accorgiamo che la ragazza nata per catturare gli sguardi è stata in realtà quella attraverso i cui occhi abbiamo guardato passare un pezzo di vita, e di Napoli e di noi stessi e della nostra giovinezza. Attraverso i cui occhi abbiamo visto. Il professor Marotta (un altro nome preso dall’empireo partenopeo, interpretato da Silvio Orlando), quello che per anni risponde a Parthenope di non sapere cosa sia l’antropologia, quello che definisce Billy Wilder un antropologo, finalmente le rivela: «L’antropologia è vedere». Non guardare; vedere. E vivere vedendo, accettando la bellezza del grottesco e dell’insolito, lasciandosi scorrere addosso le immagini e la vita, che all’improvviso ti ritrovi tutta davanti, già vissuta, squadernata come un film, con i suoi climax. «È durato poco» dice Parthenope, che è triste e frivola, determinata e svogliata, viva e sola. E sorride.