Ivry-sur-Seine, periferia di Parigi, liceo Romain Rolland. Anaïs, Catia, Clément, Elia, Lisa, Hugo, Judith, Manon, Mélodie, Tessa: adolescenti francesi, studenti, ragazzi e ragazze, alcune di loro immigrate di prima o seconda generazione (una ragazza cinese, una turca, una nigeriana che la madre ha mandato in Francia per salvarla dalla violenza e che non ha troncato i legami coi frattelli). Conversazioni, confidenze, mezze verità, pianti, in un solo caso una conversazione con la dottoressa della scuola. Al loro fianco, posta di fronte o di spalle, prossima e invadente ma in qualche modo anche parsimoniosa nell’offrire allo spettatore momenti d’intimità e privato, la macchina da presa di Claire Simon riprende e ascolta, mentre il montaggio costruisce tracce di sguardi e di corpi vicini, mai in conflitto, sempre in tensione.
I protagonisti imparano ad accettare la presenza del cinema nelle loro vita; il cinema impara a conoscere i suoi soggetti, li influenza nei loro discorsi e nelle loro impudiche aperture; forse, invece, li ispira e li libera dal peso della loro angoscia.
La regista francese, cogliendo in un’ora e quaranta minuti di film l’auto-narrazione di ragazzi e ragazze del nostro tempo (ripiegati sulla tecnologia, illuminati dalla passione, forgiati dalla sofferenza così come dalla conoscenza), si pone il problema della distanza e dell’obiettività, ma riesce a dare alla propria idea di cinema un valore di presenza, di vicinanza che ne decreta la forza e la bellezza.
Le solitudini del titolo sono quelle dell’adolescenza, sì, ma soprattutto dei legami familiari, degli studenti di oggi che danno per scontata la separazione dei propri genitori o quella dei genitori dei compagni di classe, che alle spalle hanno mondi segnati dalla follia o dalla violenza o che semplicemente pensano sia normale mangiare in solitudine guardando la tv, mentre la madre guarda in streaming sull’iPad serie tv asiatiche…
Non c’è moralismo nel film, perché ogni aspetto anche sociologico emerge dai dialoghi, cercato ma non forzato, come frutto della confidenza che poco alla volta viene a crearsi fra i protagonisti e la macchina da presa. Claire Simon, che nel capolavoro Récréations osservava nell'intervallo di una scuola dell'infanzia le dinamiche della società all’opera, qui opta piuttosto per un approccio più umanista, creando una circuitazione fra la sua curiosità di cineasta, il bisogno di parola degli adolescenti e la tendenza all’esibizione del privato. E se preso singolarmente ciascuno di questi aspetti vive della propria solitudine, grazie al film, durante il film, nell’equilibrio creato dal montaggio, ciò che viene a formarsi è invece un'esperienza di comunità, di condivisione. Fragile, certo, ma cinematograficamente impermeabile alla durezza del reale.