Mitchell Leisen, il più sconosciuto dei classici della grande commedia americana anni 30 e 40: esordiente nel cinema negli anni 20 nel reparto costumi e scenografia, passato alla regia negli anni 30, famoso per il suo raffinato senso visivo, autore di mélo e, soprattutto, commedie. Diresse sceneggiature del contemporaneo Preston Sturges e dei più giovani Billy Wilder e Charles Brackett. Probabilmente non era cattivo come loro, ma era molto bravo a mescolare melodramma e commedia. Regista di attrici, diede grandi parti a Claudette Colbert, Olivia De Havilland, Jean Arthur, Barbara Stanwyck, mentre tra gli uomini i suoi preferiti erano Fred MacMurray, Ray Milland, Charles Boyer.
Infatti, per un suo costosissimo film del 1944 avrebbe voluto come protagonisti Claudette Colbert e Ray Milland; invece, impegnato a finire un altro film, dovette accettare Joan Fontaine e Arturo De Cordova (star del cinema messicano, molto attivo a Hollywood negli anni 40, in ruoli “esotici”) ed ebbe poco tempo per occuparsi della sceneggiatura, tratta da Talbot Jennings dal romanzo del ’41 di Daphne du Maurier Frenchman’s Creek (La baia del francese, mentre il film in Italia s’intitolò L’avventura viene dal mare). E forse alcuni di questi “disguidi” contribuirono all’eccentricità di Frenchman’s Creek, che è insieme film di pirati, commedia, una spruzzata di mélo, tanta avventura e tantissimo woman’s film, la storia di una donna che combatte per affermare il suo carattere, che è avventuroso, libero, romantico, mentre la sua classe la vorrebbe signora, molto spregiudicata ma allineata alle regole e agli intrallazzi della Corte.
Dona St Columb, nobildonna londinese del 17° secolo, decide di ritirarsi per un po’ con i suoi due bambini nel suo castello in Cornovaglia perché stufa del marito pasticcione e del suo insinuante migliore amico (interpretato da Basil Rathbone, per cui è subito chiaro chi sia il villain del film). E qui, nella baia nascosta nella sua proprietà, si dice attracchi spesso la nave pirata di un francese, che va a razziare le coste inglesi in risposta alle analoghe razzie britanniche di là dalla Manica. Inevitabile l’incontro e il rispettivo innamoramento. Ma a questo punto saltano molti dei clichés (già abbastanza messi in crisi dalla decisione con cui Dona pianta tutto e se ne va), la protagonista da dama si trasforma in mozzo, entra in scena un buffo servitore che sembra lo Spugna della versione Disney di Peter Pan, i bambini vengono dimenticati per quattro quinti della storia, il film di pirati vira verso il musical (eccezionale la sequenza della partenza della nave con i pirati al lavoro che cantano), il tutto immerso nei dialoghi fitti da commedia e in una ricchezza scenografica e visiva mozzafiato.
Presentato nella XXXV edizione del Cinema Ritrovato di Bologna nella versione appena restaurata da Universal Pictures e Film Foundation in un Technicolor abbagliante, Frenchman’s Creek è uno di quei film strambi e fuori dalle regole che la Hollywood degli studios sapeva produrre. Fuori budget (più di 3 milioni e mezzo di dollari, uno dei più costosi della Paramount fino ad allora) e fuori dai tempi (più di cento giorni di riprese), molto amato dal pubblico dell’epoca, poi dimenticato, è una fantasia lussureggiante, un invito a lasciarsi andare al desiderio e alla libertà. Anche per la sua protagonista, che forse è uno degli elementi più spiazzanti del film: Joan Fontaine che, con una capigliatura rosso fuoco alla Maureen O’Hara (magnifico il momento in cui il Francese le dice di mettersi il berretto da mozzo perché altrimenti nessuno la potrebbe scambiare per un ragazzo) e un décolleté e una sensualità mai esibiti, fa appannare il ricordo della sorella Olivia De Havilland che, dieci anni prima, si lasciava conquistare da Errol Flynn-Capitan Blood.