Assicuratore bianco, classe media, moglie e due bambini, piuttosto bigotto e conservatore, fastidiosamente noto per il flusso inarrestabile delle sue battutacce razziste e sessiste, ossessionato dalla forma fisica: fa ginnastica nella palestra domestica, beve miscugli organici, si sottopone a due lampade abbronzanti al giorno e ogni mattina ingaggia una gara di corsa con l’autobus che porta gli impiegati dai sobborghi al lavoro in città. Si chiama Jeff Gerber e un giorno si sveglia nero. Irrimediabilmente, nonostante usi tutti gli acidi sbiancanti sul mercato e maceri per ore in una vasca piena di latte. Non è stata colpa delle troppe lampade e della troppa soia ingurgitata nei suoi beveroni; forse c’è una ragione genetica.
Comincia così Watermelon Man, opera chiave del cinema afroamericano, che fu diretta nel 1970 da Melvin Van Peebles e che è stata presentata nella versione restaurata da Sony Pictures alla XXXV edizione del Cinema Ritrovato di Bologna. Lo produsse la Columbia, sulla base di una sceneggiatura dello scrittore liberal Herman Raucher, e, volendo un regista di colore, lo affidò a Van Peebles, che aveva già diretto alcuni cortometraggi e un lungometraggio e che rivoluzionò la sceneggiatura, trasformandola da una critica al razzismo latente nei bianchi liberal (come voleva Raucher, e che resta nel personaggio della moglie di Jeff) in una incitazione alla presa di coscienza e alla lotta degli afroamericani.
C’è molto da imparare da Watermelon Man, che elabora il suo percorso dal razzismo più mediocre e borghese alla consapevolezza black senza distaccarsi mai dalla leggerezza della satira. Commedia, se vogliamo, “nerissima”, nella quale provi sulla tua pelle quello che succede quando il suo colore cambia: luoghi consueti che diventano inaccessibili, passanti che urlano al ladro se ti vedono correre, segretarie che ti schivano e altre che invece si aspettano da te prestazioni sessuali eccezionali, un capufficio che passa tutti i tuoi clienti a un collega e ti affida invece una fetta di mercato (nera) inesplorata, fino agli amici e vicini che arrivano a darti 100.000 dollari purché tu te ne vada da quella casa e quel quartiere. Non c’è bisogno che si presenti il Ku Klux Klan alla tua porta perché tu abbia la vita distrutta. E, via via che il tuo abbigliamento cambia dalla flanella grigia a completi più sgargianti, anche la tua testa cambia, e capisci che tutto quell’esercizio fisico e quel logorio mentale puoi indirizzarli verso una causa. Immerso nei colori pop e lucidati degli anni 70, che si fanno più pastosi via via che Jeff si addentra nell’universo black, Watermelon Man dà la percezione precisa delle limitazioni, le storture, le assurdità dell’essere nero in un universo quotidiano bianco. Mai predicatorio, eppure va dritto al punto.
Ci fa ridere di Jeff bianco, e poi di Jeff bianco/nero, finché non riusciamo anche noi ad attraversare, con lui, quel confine cromatico, a essere dalla sua parte, non di testa, ma a pelle. Ridendo, appunto. Far ridere, tra l’altro, era il mestiere del protagonista: Godfrey Cambridge, noto stand-up comedian e attore televisivo e cinematografico, che Van Peebles volle a tutti i costi, mentre la Columbia avrebbe preferito un interprete bianco, poi truccato da nero. Invece, Cambridge, complice l’eccesso di soia e di lampade, fu “sbiancato” nel primo terzo del film, con effetti surreali, accentuati dalla sua comicità fisica. Watermelon Man ebbe un buon successo, tanto che la Columbia offrì a Van Peebles un contratto per altri tre film, che l’autore rifiutò perché voleva che il suo lavoro successivo fosse completamente indipendente. Nacque così Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, pietra miliare del cinema black.