La composizione di È difficile essere un Dio, ultima opera di Aleksej Jurevič German, a cui l'ottava edizione del Festival del Film di Roma ha assegnato un premio postumo alla carriera, è tanto semplice nel metodo quanto complessa nella realizzazione estetica: attraverso una messa in scena iperdettagliata, il cineasta russo traccia un'equivalenza tra creazione e visione, che va al di là del racconto e si basa quasi del tutto sulle percezioni fisiche.
Il quadro che vediamo sullo schermo è così completo e così reale da apparire come un'emanazione diretta della fantasia dell'autore: difficile immaginare che quelli siano attori impegnati a recitare su un set appositamente ricostruito e che possiedano un'esistenza corporea anche al di fuori dei propri personaggi.
Cinema puro, insomma. La storia, ridotta al minimo e basata sul romanzo fantascientifico dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij, è quella di un piccolo gruppo di umani inviati sul pianeta Arkanar sotto la guida di Don Rumata (Leonid Yarmolnik): lì la società presenta caratteristiche simili a quelle della terra nel periodo medievale, è devastata dalla povertà, dalla violenza e dal massacro sistematico di chiunque sia in grado di leggere e scrivere.
Don Rumata e i suoi non possono però intervenire sugli eventi in modo esplicito e lo spettatore, che si trova a condividere i loro occhi, è intrappolato nella stessa impotenza, resa più intollerabile dai frequenti sguardi in macchina da parte della gente di Arkanar.
La chiave ce la dà già il titolo, senza giri di parole: è difficile essere un Dio, un Dio che vede tutto, davvero tutto, per scelta (il dio-regista) e per condanna (il dio-spettatore). E che non può far nulla perché la materia, in questo caso l'umanità di Arkanar, possiede la sua libertà, per quanto terribile, distorta, votata al male e refrattaria a ogni tipo di ordine, morale e narrativo. Ma di chi è la responsabilità, del creatore o del creato?
L'attore Leonid Yarmolnik dice che il film parla dell'assenza di senso, della sconfitta di ogni generazione e di come gli uomini non possano fare a meno di impegnarsi per ottenere cambiamenti positivi pur sapendo che non serve a nulla.
German e la moglie Svetlana Karmalita, anche co-sceneggiatrice, ci hanno lavorato per un tempo lunghissimo. Il risultato è un'esperienza cinematografica che va al di là degli abituali metri di giudizio, lontanissima dalla maggior parte delle immagini filmiche che siamo abituati a vedere.
Yarmlnik lo ha definito, a ragione, un film già eterno, «per tutti i tempi e per tutti i secoli».