Il mio papà non conosceva Bernard Herrmann e non conosceva John Williams: ma se gli avessi detto che uno era quello di Psyco e l’altro quello di Lo squalo, sono certo che ne avrebbe fischiettato i motivi. Ma Ennio Morricone, ecco, lui sì, conosceva nome e cognome, e non perché era italiano (dubito che sapesse chi era Nino Rota). Lo conosceva perché amava il western, e amava, dopo i film di John Ford, quelli di Sergio Leone. Il mio papà aveva una passione reverenziale per Morricone, intonava il Triello di Il buono, il brutto e il cattivo ogni due per tre; e quando andammo tutti insieme a vedere in sala C’era una volta in America, con il mio papà e la mia mamma, mi ossessionò in seguito con la traccia su vinile di Amapola, la voleva risentire più volte al giorno. Andavamo in montagna in auto ascoltando Morricone sulle Stereo 8 grosse come un mattone. E quando la De Agostini distribuì in edicola la serie in otto cassette Colonne sonore – Temi musicali famosi di capolavori del cinema, che di Morricone era piena, il mio papà, debitamente sostituito il mangianastri antico, la metteva a rotazione.
Io sono cresciuto così. Con il mio papà che mi ha insegnato ad amare i film. E che mi ha fatto imparare a memoria il nome e il cognome di Ennio Morricone. Non c’era altro cinema. Ero piccolo, e quei film, quel nome e quel cognome, non lo erano. Per me allora le dimensioni contavano, e il trionfalismo del Morricone di Mission, di cui ricordo bene si discuteva al liceo (quando anche Roland Joffé ci pareva importante e il più grande regista del mondo), mi sembrava irraggiungibile. Come il dolly che accompagnava in paese Claudia Cardinale in C’era una volta il West: e lì la musica, che si apriva come su un palcoscenico senza confini e su tutti gli orizzonti, per me non aveva rivali.
Era un genio, Ennio Morricone? Non saprei, non ne ho mai incontrati, non ne conosco lo stampo. Ma sono certo fosse un numero primo. Era indivisibile. E sono certo anche di un’altra cosa: da quarant’anni veniva usato in qualità di vessillo ministeriale e sfruttato come medaglia al valore nazionale. Non è colpa di nessuno, è naturale, un po’ come quando l’egemonia si appropria delle schegge impazzite e delle minoranze. D’altronde per quale motivo il nostro Paese non avrebbe dovuto andarne fiero? Cosa c’è di male? Non l’ho mai incontrato, Morricone, ma avrei tanto voluto chiedergli se avrebbe preferito essere ricordato per Nuovo cinema Paradiso o per Una lucertola con la pelle di donna. Probabilmente avrebbe schivato la domanda (molto maliziosa), non gli piaceva parlare, lo si intuisce dalle occasioni davanti ai microfoni. O magari mi avrebbe mandato a quel paese, e ne avrebbe avuto ogni diritto.
E se Morricone fosse stato – anch’egli – un’immagine? O la somma di tutte le immagini possibili? A vedere i numeri (delle sue musiche, dei film, dei generi musicati, dell’alto e del basso frequentati), è plausibile. E che meraviglia pensarlo così, un’immagine tra le immagini, non una nota, non uno spartito, no no, proprio un’immagine, un segno argentiano, una linea bologniniana, un tratto petriano.
Ennio Morricone, morto a 91 anni, non era né uno stendardo, né un emblema, e non era neppure – semplicemente, banalmente – un punto di riferimento, ce ne sono tanti, e lui lo sapeva quando confessava di essere soltanto uno che scriveva musica (falsa modestia? poteva permetterselo): era però senza dubbio un’orma, di quelle che i più forti lasciano al loro passaggio, e che il tempo fa molta fatica a cancellare. Di quelle, inoltre, che spesso si rivelano così ampie, larghe e «ingombranti» da mettere in ombra il resto. Un’immagine dominante su immagini di poco conto.
Era riconoscibilissimo Morricone, in mezzo a mille? Vero, ma non era il solo: quel che più conta è che le sue immagini rappresentavano ciò che per molti spettatori, molti cinefili e molti (futuri) critici era il solo cinema possibile, l’unico pensabile, il più grande di tutti, immenso, da grande schermo. Tra questi c’era il mio papà e c’ero anch’io, che – almeno fino alla fine degli anni Ottanta – pensavo a Morricone come all’insostituibile immagine in cinemascope di un’epifania. Poi sono giunti una certa indifferenza che fa rima con abitudine (un po’ di tutti, spettatori e critici compresi), gli onori del conformismo, la spietatezza del mercato (sempre esistita, al di là di qualunque ipocrisia, ma le immagini prima erano più robuste, decise, impavide), e il cinema morriconiano è diventato una “questione casalinga”. Anche in questo caso, niente di male, basta riconoscerlo. Ma non posso fare a meno di pensare che con la scomparsa di Morricone, benché attesa e nell’ordine delle cose, siano definitivamente scomparsi anche i film. Quanto meno i film che volevano dire, per così tanti anni che non riusciamo neanche a tenerne il conto, il cinema. Quello là, quel cinema là, e sono sicurissimo che ognuno ne abbia uno suo. I più cinici diranno che non c’era più già da tempo, e hanno ragione.
Ma non vedo per quale motivo dovrei vergognarmi se ancora una volta mi ritrovo a zufolare il Triello nel ricordo sia di chi l’ha inventato, sia di chi me l’ha insegnato ad adorare: in questo modo sono orgoglioso di essere vivo, lo è anche Ennio Morricone, e lo sono – più di tutto – i film.