Prima che le vestali dell’inquisizione ne ridimensionino lo spessore di uomo, voglio chiarire due concetti, semplici: si legge chimchidòc, e con lui – e Shiri (1999) di Kang Je-kyu – il cinema coreano è diventato hot stuff, da proporre, custodire, venerare, e talvolta sopravvalutare, tra le platee dei mercati internazionali di mezzo mondo, a partire dai festival, tanto i generalisti quanto i tematici, e poi l’home video, e quindi i collezionisti, e quindi i cinefili, e le sale d’essai, e i cineforum, e gli spettatori ancora una volta stuzzicati nel loro tallone d’Achille più esotico, e naturalmente i premi, fino alle pubblicazioni, ai cataloghi, alle riflessioni contemporanee e tardive, postdatate e inutili. Quattro lustri fa. Esatti (quasi).
Kim Ki-duk muore a 59 anni (ne avrebbe compiuti 60 il 20 dicembre) festeggiando i vent’anni del film che ne ha creato l’autorialità e il mito, la statura culturale e il chiacchiericcio, L’isola (2000), quando ancora alla Mostra di Venezia le opere (le più giuste, le più importanti, le più belle, le più sconcertanti) si sposavano con le leggende che ne accompagnavano la première (ah, che rimpianti, gli svenimenti e i fuggi-fuggi, senza mai avere conferma di dove finiva la realtà e dove cominciava la fandonia da bar).
Poi è cambiato un po’ tutto, è cambiato il sistema ideologico dei festival, sono cambiati il pubblico e il cinema, i canali e anche il modo di guardare e capire le immagini, ed è cambiato anche lui, Kim, via via sempre più discusso ma paradossalmente, a partire più o meno da L’arco (2005), sempre meno tollerato, fino a diventare in tempi recenti una specie di paria, rinnegato dai suoi primissimi adoratori e ripudiato dagli stessi palcoscenici che ne hanno esaltato l’unicità.
Accade spesso, non c’è da meravigliarsi, è il mondo; è il cinema. Kim ci ha messo del suo, senza dubbio: dalle stelle alle stalle, come dimostra Arirang (2011), che è un j’accuse completamente autoriferito, narcisista e scontroso, eppure terso e puro, di un filmmaker senza più nulla da dire, né a sé stesso, né al cinema, e perciò teso all’autodistruzione.
Ma Kim Ki-duk lo è sempre stato, selvaggio e indomito, impreciso e incivile, scorbutico e primitivo, anche quando sembrava facesse poesia (che orrore, mi si perdoni). A Kim premeva il lato più turpe e incolto dell’esistenza, carne, sangue, sesso, violenza, morbosità, sopraffazione, ineluttabilità fatale della vita, morte. Kim era grazie al cielo un ignorante, cioè ignaro del buon senso e del buon gusto, e proprio per questo motivo coglieva dell’uomo la verità e il patimento del doverla affrontare e accettare, anche a rischio di essere didascalico, e lo è stato sovente.
Alla luce dei suoi film (e che luce cupa, però), credo che per Kim vivere fosse insopportabile. Ancor di più, credo che ciò che il sistema e i media gli hanno concesso, appunto i festival e i premi e i dibattiti e le teorie, lui alla lunga non l’abbia accolto come un dono, ma come una condanna. Le generalità e il rapido destino dei cosiddetti – tanti, tantissimi, troppi – maledetti? Sì, non serve negarlo.
Ma c’è qualcosa nei film più decisivi di Kim Ki-duk (Bad Guy, 2001; Guardia costiera - The Coast Guard, 2002; La samaritana, 2004) che tradisce un candore nudo, ovverosia non truccato, non agghindato a festa, mai finto, mai ipocrita: è l’ingenuità di chi non è costretto a parlare per fonemi conformistici (Kim ha cantato il brano Arirang quando ha ricevuto il Leone d’Oro per Pietà nel 2012), di chi non deve dimostrare di sapere, di chi sente sentimenti primari, impulsivi, incontenibili. Il cinema di Kim Ki-duk è un cinema non posato ma istintivo, non apparecchiato bensì maleducato. Uno sgarbo. Una villania. Perciò il mito, una volta tanto, è corretto: perché Kim mandava in visibilio il sistema cinematografico pur non aderendovi, e con gli abiti dello straccione. Roba che adesso pare fantascienza. Può darsi che ci abbia fregato tutti, lui. Oppure siamo noi che siamo troppo abituati alle abitudini che ci hanno insegnato e che ci dicono essere necessarie e opportune.