Che noia, il giorno della morte di Lina Wertmüller. Tutti con una buona parola, quando non addirittura tre o quattro. La prima donna di qua. La prima donna di là. La donna. La commedia all’italiana. L’anarchia. La prima nomination femminile all’Oscar per la regia. Che noia ipocrita. Che facce come il sedere. C’è da scommettere nel suo dito medio alzato, dall’aldilà, con un invito a tutto sorriso: «Andate affanculo!».
Quand’è che è stata rivalutata, Lina Wertmüller? O, come d’abitudine, anche in questo caso la nostra memoria – istituzionale, culturale, politica – fa cilecca? Kezich e Grazzini spesero spesso e volentieri parole d’apprezzamento (il primo la definì “indomita e discussa”, il secondo “un autore fra i più dotati del cinema italiano”). Ma la vulgata, in particolare nei salotti bene della critica, era di tutt’altro colore. E quindi? Oggi Lina è una santa? La salvatrice del nostro cinema? O si tratta semplicemente di uno scollamento incolmabile tra l’opinionismo da bancone da bar con bianchino in mano e la seriosità puzzolente della critica più atrofizzata? E per favore non scomodate Hollywood, l’Oscar alla carriera (una sfiga conclamata), gli allori, le genuflessioni: i film di Lina Wertmüller c’entravano con quell’orrore imbellettato come io c’entro con i mafiosi (e infatti sono a scrivere queste righe qui, e non a parlare in televisione o a farmi intervistare).
Ma c’è una cosa che Lina Wertmüller aveva, e che adesso non vedo più. Senza dubbio, non i suoi occhiali. E neppure il suo genere, e mi rendo perfettamente conto che a scriverlo, oggi, si rischia il linciaggio. Sapete cosa aveva, Lina, che oggi non ha nessun altro (e rivendico l’uso della desinenza maschile)? Aveva un piglio che le permetteva di gridare anche quando stava in silenzio; e la passava liscia, questo è il bello. La faceva in barba ai recensori, agli storici, ai saggisti, a quelli che ancora adesso ci tengono a farci sapere quanto sia brutto e detestabile Pasqualino Settebellezze. Le era sufficiente un grido, e i suoi film ne sono stracolmi, per fare una differenza. E per grido intendo anche un semplice gesto, una sculettata, l’attitudine alle cose, un primo o primissimo piano. Non chiedetemi il motivo, ma ho sempre accostato il cinema di Lina Wertmüller a quello di Tinto Brass: per me hanno lo stesso polso, la stessa focosità. E, guarda caso, lo stesso destino, lo scherno critico. Perché Lina Wertmüller, come Brass, e anche come certo Petri, è riuscita a sfruttare la propria peculiarità sanguigna per dare forma a opere-fiere che, a partire dai loro celeberrimi titoli, avevano pochi eguali. Erano rappresentazioni di piazza, sguaiate e sbracate perfino nelle parentesi più intimistiche, perfino nei loro momenti più privati (ce n’erano, anche se fa comodo dimenticarli o sottovalutarli), ma lo erano in quanto performance isteriche di una filmmaker che da ogni singolo film pretendeva tutto, il tutto di tutto, il tutto stroppiato, come lo pretendeva dagli interpreti e dalle inquadrature. È sufficiente per essere volgare? Sì, se per volgare vogliamo alludere a una sana ineducazione, contro il conformismo autoriale e addirittura contro il conformismo di massa. In fondo Lina Wertmüller non faceva mica commedie all’italiana, non frequentava un genere privilegiato: conoscete qualcuno che le assomigli? Quei film lì, quelli così detestati dalla critica, così perculati, e che adesso, alla morte della loro autrice, sembrano tutti capolavori (non lo sono), erano un genere a sé, parlavano per sé, anzi, appunto, gridavano. E con il grido, cioè con un cipiglio e con un movimento, sono riusciti a creare un mondo, il quale, per giunta, ha trovato ragione e giustificazione in se stesso. Tanto da infinocchiare (ma a Lina credo sarebbe piaciuto di più dire metterla in quel posto) gli americani.
Chi grida così, oggi, in Italia? Chi ha oggi questa presa, questa decisione, questa invereconda e personalissima arroganza capace di creare una visione e dare forma, una peculiare forma, alla realtà? Non voglio che sia una domanda retorica e che si perda nel vuoto: per me un vero film wertmülleriano contemporaneo è I giganti di Bonifacio Angius. E così ho legittimato, in modo completamente irresponsabile, un’aggettivazione che, se non sbaglio, nessuno ha mai avuto il coraggio di battezzare, e che, ne sono certo, sarà invisa alla critica più sapiente. Ma c’è una soluzione, che immagino gradita a Lina: potete sempre mandarmi affanculo.
[Nell'immagine in testa Lina Wertmüller fotografata da Augusto De Luca]