Parlare di un cineasta come Carlo Vanzina, scomparso l’8 luglio a Roma all’età di 67 anni, implica ragionare sulla commedia italiana, di cui Carlo e il fratello sceneggiatore Enrico, figli di Steno, sono stati i continuatori, dopo avervi mosso i primi passi al fianco di Monicelli, Risi, Sordi.
In quella stagione ormai lontana, i film fungevano da controindicazione, umori e malumori svelavano la mendacità di un boom che di volta in volta veniva svergognato nei suoi egoismi, nelle sue meschinità e nelle sue contraddizioni. Nella filmografia vanziniana, invece, il Paese non solo non camuffava il proprio becerume, ma lo eleggeva a fiero riverbero. Nella realtà l’egoismo interessato avrebbe mietuto le prime vittime, la televisione sarebbe stata assurta a voce padronale, a Milano sarebbe nata quella “città da bere” che I fichissimi o Eccezzziunale... veramente e nel versante thriller softcore Mystère o Sotto il vestito niente avrebbe colto nella sua frenesia… Il terreno sarebbe stato quello commerciale del giovanilismo, dove la goliardia compensava l’ilarità e la grossolanità mai irritante di papà Steno e colleghi, e l’erotismo patinato si sarebbe innestato nelle immagini di una società “bene” bersaglio della denuncia, ma al tempo stesso immagine di fronte alla quale prostrarsi, tra opulenza e arricchimento (Via Montenapoleone, I miei primi quarant’anni e Miliardi).
Poche ore sono trascorse dalla scomparsa di Carlo Vanzina, e in altri tempi dedicare uno spazio su una rivista come «Cineforum», se non dedicargli una monografia, avrebbe innescato la rivoluzione. Ma siamo pur sempre nel Paese dove si passa da un estremo all’altro, mentre il web si apre a ogni forma di rivalutazione o rivendicazione e la moda dell’eterno ritorno degli anni Ottanta genera una realtà distante anni luce da quella fotografata dai Vanzina… Ciò non significa che i due fratelli abbiano profetizzato una fetta di Storia recente o colto in anticipo alcuni segnali (la sublimazione delle curve calcistiche, l’avvento dello yuppismo…): la verità è che le conseguenze di quell’emisfero, nella propria ostentata turpitudine, si sono spinte oltre la loro concezione di bruttezza, perfino in politica.
Si pensi solo a un film come Tre colonne in cronaca, vicenda di fantapolitica in cui Gian Maria Volonté, simbolo del cinema militante e impegnato, si calava nei panni di Scalfari e adottava metodi poco ortodossi per salvare «La Repubblica» dalla chiusura, voluta da un losco industriale lombardo verso cui il giornale non è tenero.
Oggi i ricordi infausti o meno dei film “usa e getta” dei Vanzina (che solo molto tardi si cominciò a chiamare “cinepanettoni”, quando a girare i film natalizi erano soprattutto Oldoini e Parenti) generano sorrisi malinconici, imponendo quasi un sentimento di tenerezza. Come spiegare la rivalutazione dei corali Sapore di mare, con quegli epiloghi pervasi di nostalgia, o delle prime vacanze in trasferta americana o sulle nevi di Cortina? Ma come, al contempo, non provare a cercare qualcosa nei loro film che vada oltre la critica alla banalità piccolo-borghese dell’Italietta populista? Sarebbe un errore trascurare poi la presenza dei comici televisivi delle varie stagioni (l’Abatantuono “terrunciello”, l’ex Gatto Jerry Calà, la coppia Boldi-De Sica…), spesso chiamati a sopperire alla carenza d’idee o all’ingenuità delle formule. Formule che, venendo meno i contesti sociali o le tipologie di pubblico, hanno finito per esaurirsi anche attraverso la loro cocciuta ripetizione, con film come Eccezzziunale veramente - Capitolo secondo... me, Il ritorno del Monnezza o 2061 - Un anno eccezionale che non hanno incontrato alcun successo.
Oggi a interessanre del cinema dei Venzina è la sterminata gamma di generi affrontati: il film di denuncia, come già detto, il musicarello (Figlio delle stelle, con Alan Sorrenti), la parodia (quel Ras del quartiere che “rileggeva” Schrader, Hill e Carpenter), il fotoromanzo (Amarsi un po’..., Piccolo grande amore), l’opera in costume (La partita), la commedia fiabesca (Il cielo in una stanza, South Kensington), l’affresco corale (Il pranzo di famiglia). E se stringe il cuore pensare come si potesse fare incassi con un’antica Roma che pareva la Prima Repubblica (S.P.Q.R. - 2000 e ½ anni fa), nel mare magno delle operazioni commerciali risaltano l’ingenua riproposta dei soliti ignoti con la scalcinata banda di I mitici o il garbato omaggio al papà col sequel di Febbre da cavallo, per una filmografia che in realtà non aveva non aveva bisogno di ostentare la propria origine.
«È soltanto di fronte a quella volgarità – scrive Enrico Giacovelli – ai venditori di aspirapolvere approdati dalle stalle alle stelle, che si può nutrire qualche moto di popolaresca e antica simpatia per chi si accontentava delle stalle, a suon di rutti e causando danni al gusto ma non al paese”».