Qualcuno ha scritto che Re-Animator detiene un primato: è l’unico horror dove una testa mozzata esegue un cunnilingio. Non ho mai avuto la pazienza di accertarmene, non so se sia vero che sia l’unico, ricordo un film dove si esercitano azioni erotiche poco consone con cadaveri in decomposizione e un altro dove il massimo piacere sessuale deriva dallo smembramento di un corpo, ma non ho memoria di altre scene del genere, perciò probabilmente è così, Re-Animator è il solo horror della storia del cinema in cui un dottore decapitato stringe tra le mani la propria testa recisa per porla lasciva tra le gambe di una povera ragazza ignuda.
Tutto qui? No. Stuart Gordon era un regista che aveva capito che l’horror deve anche credere nella prossimità. Non era un autore, come non lo erano e non lo sono tanti (neppure Brian Yuzna, checché se ne dica: ma Gordon gli era superiore), tuttavia da regista, semplicemente uno che girava film, e li girava con lo spirito invitto e indecoroso della serie B anche quando sembrava avere tre denari in più, era deciso a non sottrarre all’horror la sua qualità più epidermica, quella della contiguità alle cose.
Faceva horror che stavano addosso, che vestivano, che talvolta gravavano. Gordon del new horror e del body horror era non un esegeta alla Cronenberg, e neppure un sindacalista pugnace come Carpenter, era un operaio sporco di unto, uno che si alzava presto e andava a letto presto, uno cioè che le mani le aveva callose. Per lui il cinema aveva la necessità di capire la taglia dello spettatore, capirla, non intuirla o indovinarla, bastava capirla, capirne la forma e le urgenze, e per farlo il cinema stesso non poteva permettersi di scindere identità e funzione dalla società e dal mercato. L’horror, per Stuart Gordon, non era però lo specchio del sé e dell’altro, era piuttosto un amico, il fratello con il quale si litiga ma che ti conosce meglio di chiunque altro, il famigliare che vedi raramente ma quella volta, quando lo rincontri, è sempre come la volta più bella.
Più che un affare commerciale, la serie B di Stuart Gordon era dunque un capo che ci piaceva indossare. Ecco perché lui non era un autore. Era – soltanto – un sarto, e non d’alta moda. Era un manovale. Diversamente dagli autori horror più celebrati e “teorici”, lui cuciva e a volte rammendava alla bell’e meglio, metteva insieme con la stoffa meno pregiata, e lavorava a testa bassa, perché aveva colto del mondo, quello degli anni Ottanta in particolare, l’impossibilità di una distanza: per vederlo e per viverlo con più intensità, quel mondo, bisognava starci dentro, lasciarsene invadere e schiacciare, essergli più che vicino, essergli in mezzo, aderirvi. Come una seconda pelle.
Nessuna astrazione allora: l’horror di Stuart Gordon era un abito che faceva il monaco. Lì, in quelle scene grondanti gore di lattice, tra ghiandole perverse (From Beyond - Terrore dall’ignoto) e creature incatenate (Castle Freak), si nascondeva uno sguardo che non aveva le generalità di una firma ma che rivelava una stupefacente abilità a intercettare le misure della contemporaneità.
Stuart Gordon era uno “stagionale”, e considerava il cinema come il modello più credibile per sopravvivere alla realtà e nella realtà. I suoi film, anche quando poco riusciti, anche se a bassissimo budget, non erano dei campioni di niente però erano delle magnifiche consuetudini alla vita. Erano un costume, cioè un’usanza: li si “adoperava” per immaginare di trovarsi nelle migliori condizioni possibili, quelle che ti permettevano di decifrare qualcosa di te stesso anche da una scena apparentemente improponibile come una testa mozzata che pratica il cunnilingio. Capivi che il cinema era qualcosa che ti sedeva accanto. Strettissimo.
E oggi?