A prima vista, As Boas Maneiras potrebbe apparire, complice il titolo, un dramma sulle differenze etniche e sociali della società brasiliana: a São Paulo una donna di colore, Clara, si presenta a casa di una ricca ragazza bianca per farsi assumere come babysitter. Anche nella più tranquilla e banale realtà, però, niente è come sembra, come bene insegna la filmografia di Marco Dutra e Juliana Rojas. Dopo Trabalhar Cansa, la coppia di registi torna dietro la macchina da presa e dirige, all’unisono, un altro film in cui il reale si fonde con il magico, l’ordinario con lo straordinario e i confini sfumano fino a diventare pericolosamente scivolosi. Se già il film del 2011 si presentava come un dramma familiare che, inoltrandosi a poco a poco nelle ombre del quotidiano, finiva per disvelare il suo cuore profondamente horror, As Boas Maneiras ha un’anima cangiante e camaleontica che sarebbe arduo, se non addirittura inutile, incastonare in un singolo genere. Di una cosa, però, possiamo essere certi: il film in concorso al Festival di Locarno porta con sé la lunga tradizione del realismo magico sudamericano.
Una volta che Clara viene assunta come domestica, tra lei e Dona Ana si crea un nuovo e ambiguo legame affettivo, finché al rapporto di lavoro non si sovrappone l’attrazione erotica che provano l’una per l’altra. Ed è proprio qui, nel precario equilibrio che si è creato, che si innesta l'elemento soprannaturale, emergendo insospettato nella vita di tutti i giorni. Durante una notte di luna piena, Dona Ana perde la vita per dare alla luce il suo bambino, Joel, una creatura metà umana e metà animale, un cucciolo di lupo mannaro. Clara deciderà di prendersene cura, così come ha fatto con la donna che ha amato.
Alla luce della luna, la dimensione onirica si confonde con la realtà, la leggenda con la vita reale, rifrangendosi nei colori saturi e pieni della fotografia. Le contrapposizioni cromatiche riflettono le contraddizioni di un paese ancora sospeso tra il presente e il passato, in cui il progresso della metropoli deve fare i conti con il radicamento delle credenze arcaiche alimentate dalla superstizione. Dai toni pacati e morbidi del melò, il film si tinge di rosso, con venature grandguignolesche e qualche accenno un po’ splatter, con tanto di reminiscenze del John Landis de Un lupo mannaro americano a Londra. Per poi, inaspettatamente, vestire i panni del musical e far cantare i personaggi. E come in ogni musical che si rispetti, è la canzone che sostituisce il non detto e che permette di liberarsi dalle emozioni. As Boas Maneiras cambia continuamente pelle, proprio come il piccolo protagonista.
Dutra e Rojas tornano ad affrontare il tema della metamorfosi già messo sullo schermo con il cortometraggio Um ramo del 2007: se qui la protagonista vedeva con orrore il proprio corpo ricoprirsi di foglie per tramutarsi in un albero, il piccolo Joel si ricopre, come leggenda vuole, di peli e artigli acuminati. Ma nel realismo magico, come è noto, il fantastico è allegoria del reale, e la trasfigurazione in albero o animale non è altro che metafora del mutamento di sé: vedere il proprio corpo che cambia ed essere in grado di accettarlo. A ben vedere, le metamorfosi della tradizione popolare sono dunque la controfigura soprannaturale del più grande e vero cambiamento cui può andare incontro l’essere umano: diventare genitore. E la maternità è l’espressione più concreta di questa trasformazione. As Boas Maneiras è, in fin dei conti, un film sull’accettazione dell’altro e di sé in quanto diversi e, prima di tutto, un film sull’amore materno. Il legame inscindibile tra madre e figlio è un patto sacro e imperituro, sancito dall’allattamento al seno e infuso attraverso il latte, o il sangue, della madre, un legame che nessuno deve osare infrangere: in O Lençol Branco, altro corto diretto a due mani nel 2004, una madre non si rassegnava a staccarsi dal proprio bambino, fino a volerne conservare un pezzo nel comodino. As Boas Maneiras va ancora oltre e mette in scena una madre disposta a sacrificare la propria carne e la propria vita pur di far sopravvivere il figlio. Perché non c’è amore più grande e più vero dell’amore di una madre per i propri cuccioli.