In Good Luck di Ben Russell l’immagine non cattura il mondo imprimendogli la violenza del prima e del dopo, ma lo abita in modo fluido, etereo, lasciando che il tempo riacquisti la sua naturale fuggevolezza e che gli oggetti, le persone e i luoghi che popolano le inquadrature tornino ad avere un proprio valore. Legato allo stile etnografico-sperimentale di Jean Rouch e all’approccio critico dei post-colonial studies, Russell ha lavorato per più di 15 anni con la popolazione dei saramacchiani in Suriname riprendendone le abitudini, le usanze e le pratiche magiche.
L’attenzione verso il sacro e la volontà di creare un ponte tra mondi e regimi di sguardi tra loro distanti (quello occidentale dove la datità del reale, oltre che ad essere l’unica forma di realtà possibile, è fonte continua di possibili ricchezze; quello esotico, primitivo, superstizioso, immerso in un’atmosfera mitica in cui il reale è ancora permeabile allo spirito magico) è l’elemento centrale di Good Luck.
Allontanandosi dall’etnografia psichedelica che caratterizza i suoi film più conosciuti (Greetings to the Ancestors, Let Each One Go Where He May, A Spell to Ward Off the Darkness), questo nuovo lavoro ritrae due comunità minerarie che operano agli antipodi dello stesso mondo: da una parte, osserviamo il lento e duro lavoro di alcuni impiegati statali in una miniera di rame profonda 500 metri in Siberia; dall’altra, l’estrazione illegale dell’oro nella giungla tropicale del Suriname. L’opposizione dei luoghi, degli usi e dei soggetti (l’abisso roccioso della cave di rame/ la conca acquosa e perennemente soleggiata della miniera d’oro; i lavoratori bianchi e occidentali serbi/ la manodopera nera cimarrona) riflette una comunione di intenti (la disponibilità di sottomettersi al dominio del capitale globale per garantire ai propri figli un futuro migliore) che Ben Russell lascia emergere senza alcun didascalismo.
In Good Luck i personaggi sono spettatori di una situazione che subiscono senza potervi reagire e, allo stesso tempo, sono consegnati a uno sguardo che li osserva e sovradetermina. Tuttavia, accanto a quello che sembrerebbe il consolidarsi del dispositivo cinematografico inteso come architettura di produzione e riproduzione dello sfruttamento, il regista opera uno scarto che consiste nell’emancipare l’immagine dalle rigide griglie della narrazione e, soprattutto, nel mostrare la contaminazione del lavoro-sfruttamento con le pratiche di soggettivazione introdotte dalle numerose (e talvolta sottaciute) manifestazioni rituali. Nonostante le terribili condizioni di lavoro e il progressivo depauperamento umano ai quali sono soggetti, sia gli operai siberiani, sia quelli samaracchiani reagiscono agli eventi producendo mondi e narrazioni che conferiscono un senso nuovo all’esistenza.
È proprio questo spazio mistico, inedito e nascosto che cerca Russell: il suo obiettivo non è documentare la povertà o denunciare lo sfruttamento, bensì mostrare come un’umanità ormai assoggettata alla morbida disciplina del capitalismo si apra continuamente a impensabili possibilità di condotta e resistenza.