“Abbiamo svegliato il diavolo dentro di noi con questa sporca guerra, ed ora non riusciamo più a trovare un altro linguaggio per parlare”. È un po’ quello che diceva Martin Luther King in una delle sua massime più famose: “a riot is the language of the unheard”, cioè gli scontri di piazza sono il linguaggio di quelli a cui non è concessa la parola. Ed è un po’ quello che è successo in Kurdistan a partire dal 2015, a partire cioè da quella che è stata una nuova militarizzazione della questione curda da parte di Recep Tayyip Erdoğan da quando è diventato Presidente della Turchia (dopo aver fatto ben tre mandati come Primo Ministro).
Quelle parole - che sentiamo pronunciare da una sorta di protagonista o voce narrante di uno dei film più stupefacenti visti quest’anno, Meteorlar di Gürcan Keltek, passato nella sezione Cineasti del presente – sono forse la sintesi migliore del senso di frustrazione di una collettività a cui viene sistematicamente e da decenni impedito di dare forma politica alla propria vita. In Kurdistan negli ultimi anni abbiamo visto l’attacco frontale da parte del regime dell’AKP di Erdoğan contro uno dei tentativi più efficaci di dare una forma diversa, e compiutamente politica, ad una causa tutt’altro che regionale, ma anzi che ha sempre parlato proprio l’universalità del linguaggio dell’emancipazione. Perché il Kurdistan, una terra rurale di montagne persa tra la Turchia, l’Iran, l’Iraq e la Siria, non è una questione che riguarda i diritti di un popolo ben delimitato o di una minoranza, ma costituisce da sempre la più grande possibilità di democratizzazione della società turca tout court. È stata questa la scommessa dell’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, che da anni ha sprovincializzato la causa curda e l’ha fatta diventare la realtà politica della sinistra turca in tutta la nazione. Ma è stato anche questo il motivo (e la capacità di quel partito di raccogliere più di 6 milioni di voti nelle politiche del 2015 pari a più del 13% dei voti) che ha attirato la repressione del governo di Ankara. Il 2015 è stato l’anno che ha visto – anche a seguito della crisi siriana – una recrudescenza gratuitamente sanguinaria della repressione di Ankara. Ed ecco che posti come Şırnak, Cizre o Silopi al confine con l’Iraq o il tristemente famoso distretto di Sur a Diyarbakır sono diventati il teatro di una vera e propria guerra civile.
È difficile sottostimare quello che ha rappresentato anche simbolicamente il fatto che un governo abbia reagito a un progetto compiutamente democratico come è stato quello della generazione dell’HDP (ma anche dell’Ocalan degli ultimi anni) con una risposta unicamente militare. Ed è proprio in questo cul-de-sac della vicenda curda che è nata una nuova generazione di giovani militanti del PKK che ha iniziato a rispondere con le pietre e gli scontri di strada ai blindati di Ankara che hanno invaso molte delle città del sud-est negli ultimi due anni. Ragazzi che avevano evidentemente perso la fiducia nella possibilità di una via negoziale e politica e che hanno risposto semplicemente scendendo in strada e difendendosi come meglio potevano: i riot appunto come linguaggio degli unheard.
Bisognerebbe tenere a mente questa particolare e delicata congiuntura politica quando vediamo scorrere le immagini di un film come Meteorlar che viceversa sembrerebbe adottare un registro evocativo e immaginifico, ma che ha anche l’enorme merito di essere uno dei primi (nonché uno dei migliori esempi) di tentativi di rappresentare il Kurdistan post-Erdoğan: un Kurdistan dunque disincantato e attraversato da un sottile senso di disperazione di cui il film riesce a dare perfettamente il mood.
Sembrerebbe strano mettere così tanta storia e così tanta politica in un film che inizia con uno stupefacente bianco e nero irreale e ci mostra le immagini di un monte brullo e disabitato: parrebbe anzi di essere in uno scenario fantascientifico dove non solo la storia ma forse nemmeno gli umani hanno dimora. E infatti le uniche presenze che vediamo nei primi minuti di film sono quelli di animali che camminano e di qualche soldato isolato che va per un sentiero. Non è solo quando vediamo irrompere la violenza di una battuta di caccia, di uomini cioè che sparano agli animali, ma anche quando vediamo gli stessi animali combattere l’uno contro l’altro che capiamo come non ci sia alcuna possibilità di una fuga ancestrale. La natura non rappresenta una fuga, me semmai è essa stessa ad essere "dannata" e ad essere attraversata da conflitti e impossibilità. I cieli allora, che nella prima parte sono già colmi di nuvole e di minacce, diventano subito il teatro dei fuochi d’artificio della comunità curda festante, che però ben presto si tramutano nelle bombe del regime di Ankara. La parte centrale, quella più politica del film, dove vediamo per la prima volta le famose barricate dei giovani militanti curdi del PKK che non rispettano il coprifuoco imposto dai militari, viene però girata senza alcun compiacimento sensazionalistico, ma anzi – grazie anche a una fotografia che non è mai documentaria – Keltek è in grado di mostrare sempre la sostanza desiderante di cui sono fatte queste rivolte.
Ed è anche stupefacente pensare come questo film rappresenti davvero autenticamente la prima volta che vediamo le immagini di uno dei conflitti più importanti che stanno attraversando l’Europa degli ultimi anni dal punto di vista interno di chi vi partecipa (perché contrariamente a quello che si pensa in Europa, il blocco dell’informazione in Turchia non è finalizzato soltanto all’opinione pubblica interna, ma anche alla circolazione di queste immagi all’estero). Le meteore, che allora strutturano il tessuto metaforico sui cui si dipana il film, si trasformano alla fine in un vero e proprio sciame meteorico, che è piovuto sul Kurdistan nel novembre del 2015 proprio nel momento più caldo della guerra. Come se la metafora che dà il titolo al film non faccia parte del nostro sforzo interpretativo (o di quello del regista) ma che strutturi autenticamente il reale di quei luoghi. Non sappiamo se la gente dei villaggi che il giorno dopo questo stranissimo evento cosmico girava per i campi sperando di trovare i resti di queste pietre per venderle alla NASA o a qualche centro di ricerca, potesse davvero dire di avere ritrovato la speranza in qualcosa. Ma è certo che per provare a dare una risposta a uno degli enigmi politici più complessi di questi anni ci vorrà molto più di qualche corpo celeste caduto casualmente vicino a Diyarbakır. Ma forse anche qualcosa in più di qualche riot.