Il sipario è aperto, già da qualche giorno, sul Milano Film Festival, che quest’anno diventa maggiorenne. E i diciotto anni, anche per un festival, segnano un momento di passaggio. Se questo passaggio coincide con una crisi congiunturale profonda e con l’abbattimento di sostegni e finanziamenti, come sta accadendo a tutte le manifestazioni di questo genere che hanno luogo in Italia, occorre fare di necessità virtù, e concentrare le energie, ridurre le dispersioni e puntare sulla qualità, sulle variabili linguistiche e contenutistiche, sulle contaminazioni di generi e di media e, soprattutto, sui modi nuovi e mutevoli di fruizione dello spettacolo cinematografico. Ma anche sull’assottigliamento dei limiti tra schermo e mondo esterno, su un’idea di spettatore-cittadino che da sempre sta a cuore alla manifestazione milanese, che ne fa un’esperienza non limitata alla sala e all’eventuale dibattito o Q&A, come si usa dire ultimamente: una vera e propria festa, dove il cinema è testo e pretesto.
È vero, il festival, oggi diretto da Alessandro Beretta e Vincenzo Rossini, nasce come concorso di cortometraggi, e le primissime edizioni erano concentrate in pochi giorni in un’unica sala, e partivano dall’idea di colmare l’assenza di un festival di cinema di quel formato: nel programma del MFF 2013 i corti in competizione sono 51, dalle sperimentazioni audiovisive al limite della videoarte a lavori narrativi più tradizionali, a brevissime gag animate, a segnare che l’eredità di quel senso di scoperta sopravvive intatta. A questi si aggiunge una selezione delle eccellenze del cortometraggio d’animazione, programmata in forma di maratona, un appuntamento che attira il pubblico più vasto e più affezionato.
Ma negli anni, di edizione in edizione, il MFF si è dotato di sezioni che contendono la scena ai corti e integrano il panorama proposto, dalla selezione di lungometraggi in competizione a Colpe di Stato, sezione di culto per gli spettatori più attenti allo scacchiere politico internazionale e alla crisi delle certezze e dell’informazione, oltre a una programmazione di film fuori concorso, The Outsiders.
Nel concorso lunghi (quest’anno sono undici, opere prime e seconde da tutto il mondo, tutte in anteprima nazionale), il MFF è stato in qualche misura tra i pionieri di quell’atteggiamento aperto che ha scosso il recentissimo palmarès veneziano, imponendosi a un pubblico più vasto: il comitato selezionatore, infatti, ha sempre evitato la distinzione tra film di fiction e documentario, badando più alle ragioni del contenuto, del linguaggio e dello stile.
Per esempio, due opere estreme e importanti come Terra de ninguem di Salomé Lamas, e Fifi Howls From Happiness di Mitra Farahani, che vengon giù dritte dritte dalle pieghe della Berlinale, gareggiano, ad armi pari, con opere più tradizionalmente narrative, come Run and Jump di Steph Green o Licks di Jonathan Singer-Vine, in una selezione che riserva tante altre sorprese.
In Colpe di Stato, tra gli altri, hanno fatto già parlare di sé The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, il film sugli orrori del regime indonesiano, che ha suscitato l’ammirazione di Werner Herzog, e Dirty Wars di Richard Rowley, un’inchiesta che allunga le ombre sulla politica estera dell’amministrazione Obama.
Belle sorprese si annidano anche tra gli Outsiders, da Upstream Color di Shane Carruth (nella foto), fantadelirio emozionale che è già di culto, all’ultimo film “negato” di Jafar Panahi, Closed Curtain, proposto in anteprima italiana. Ma anche film piccoli e meno piccoli, storie di veri outsider (i black-punk di A Band Called Death), e di chi ha vissuto a ridosso del potere, dei protagonisti, come Gore Vidal, The United States of Amnesia. (Carlo V.Vari)