Gli orrori dell’universo concentrazionario (anche se non siamo ad Auschwitz), la riduzione della vita a oggetto inerte di cui potersi disfare, la fame, il freddo, l’isolamento fisico e affettivo, l’ossessione di dover ricorrere alla delazione – anche dei propri familiari, se intenzionati a cospirare – pena la fucilazione.
Tutto questo e molto altro ha vissuto sulla propria pelle Shin Dong-hyuk, giovane nordcoerano nato nel 1983 e vissuto in un campo di rieducazione e di prigionia fino al 2005. Ventidue anni into the darkness (in quelle tenebre, per parafrasare il celebre libro-intervista a Franz Stangl, comandante capo di un altro luogo infernale della Storia, Treblinka). Lo spettatore di Camp 14 Total Control Zone di Marc Wiese, passato nella sezione «Colpe di Stato» del Milano Film Festival (Gran Prix come miglior documentario al Festival del Film di Ginevra), rimane attonito. Quasi non crede a quella vicenda letteralmente «oscena». Ossia fuori da ogni possibile immaginario della modernità. E invece è tutto vero. Anzi. Ancora oggi, nella dittatura governata da Kim Jong-il, esistono circa duecentomila persone (dissidenti, oppositori politici, criminali comuni) che vivono in terribili condizioni di prigionia.
La particolarità del documentario di Wiese – e la sua straordinaria, quasi epidermica potenza – è che la drammatica testimonianza del "sopravvissuto" Shin Dong-hyuk (un "salvato" a fronte dei tanti "sommersi" per usare la terminologia di Primo Levi) è incrociata con quella di Hyuk Kwon, sorvegliante in un campo di lavoro, e di Oh Yangnam, della polizia segreta di Pyongyang. Anche loro, come il protagonista, anche se da posizioni opposte, si sono rifugiati in Corea del Sud. Il confine che divideva non solo una nazione, ma la vita dalla morte.
All’espressione di angosciato stupore ancora racchiusa negli occhi del giovane Shin Dong-hyuk («le uniche volte che mangiavano carne» racconta in uno dei momenti più disturbanti della lunga intervista «era quando catturavamo un topo») fa da irritante contrappunto il freddo, burocratico resoconto dei due funzionari di regime. A loro nessuno aveva detto che fosse una cattiva azione fucilare degli innocenti. O stuprare le detenute donne, da cui avevano spesso dei figli. Lo si faceva e basta, perché così stabilivano le regole del campo. La "banalità del male" raccontata da Hannah Harendt, né più né meno.
A rendere ancora più speciale l’opera di Wiese – con un espediente tutt’altro che incongruo – sono gli inserti animati dall’iraniano Alireza Darvish, capaci di illustrare in un chiaroscuro graffiato ma dai contorni nitidi e realistici, alcuni momenti (flashback) della lunga prigionia del protagonista: le misere e sempre uguali porzioni di cibo, gli anfratti di una cella di isolamento, l’esecuzione più angosciante alla quale Shin Dong dovette assistere, quella della madre e del fratello, arrestati dopo una sua "soffiata". La regola diabolica di Camp 14 non ammetteva deroghe. Avrebbe potuto non denunciarli, sì, ma sarebbe stato fucilato.
Infine la fuga finale, quasi un inserto macabro che infittisce la trama di un romanzo che sa già di miseria e di morte. Dopo aver fatto conoscenza con un detenuto più anziano giunto nel campo («fu lui parlarmi di un mondo che esisteva là fuori, mi raccontava con gioia di aver mangiato una cosa che non conoscevo, la carne di pollo»), Shin escogita l’evasione. Conosce bene la collina dove i detenuti vengono mandati a raccogliere la legna. Da lì, insieme, possono tentare di scavalcare il recinto di filo spinato. Ci provano ma l’amico muore subito. Folgorato dall’alta tensione. Il peso del corpo carbonizzato ha tuttavia aperto un varco. Shin Dong-hyuk può finalmente correre verso la libertà.
Adesso vive in Corea del Sud, lavora per associazioni che lottano per il riconoscimento dei diritti umani, compie viaggi in tante parti del mondo per raccontare la sua avventura nell’indicibile. Grazie a un costante equilibrio tra contenuti e forme della messa in scena, Wiese realizza con Camp 14 Total Control Zone un’opera compatta e dirompente, anche perché animata da quella forza oscura e primigenia che soltanto le storie di autentica resurrezione fisica e morale possiedono.