Alessandra Celesia, valdostana di nascita e parigina d'adozione, è in concorso al Milano Film Festival con Mirage à l'italienne, un documentario nel quale il cinema del reale si mescola ad elementi molto marcati di messa in scena. I protagonisti rispondono a un annuncio comparso per le vie di Torino: "Cerchi lavoro? L'Alaska ti aspetta". Ognuno di loro è spinto da motivazioni personali che il film scopre poco a poco, ma l'arrivo in Alaska sarà una delusione. O forse una sorpresa.
Partiamo dal titolo: perché "à l'italienne"? Quella raccontata dal film è una storia tipicamente italiana?
Sì, penso che possa rappresentare una metafora di questo paese, perché l'idea dell'emigrazione, di attraversare il mare per cercare lavoro e finire per non trovare ciò che ci si aspettava, è inscritta nella nostra storia nazionale già dai primi del '900. Anche se ormai è una situazione che riguarda molti paesi europei.
Quanto c'è di vero nel film e quanto è invece frutto di un tuo intervento? I colloqui di selezione che vediamo sono reali?
Mirage à l'italienne è costruito su un filo sottile che lega verità e bugia. Nel 1995 tanti miei amici avevano risposto a un annuncio simile a quello che vediamo nell'incipit e ho deciso di riproporlo come punto di partenza del film: al salone del pesce di Bruxelles ho preso contatti con un'azienda che ha sede in Alaska, l'unica che si è mostrata disponibile, e ho organizzato dei falsi colloqui. I selezionatori erano miei complici, sapevano che ero interessata a trovare delle storie personali, ma non è stato necessario spingere troppo. Ci siamo trovati di fronte a una rabbia e a una disperazione che non immaginavamo. Nella scelta dei protagonisti ci ha guidato l'intuito. Ognuno di loro ha delle ferite nascoste, mi interessava capire chi sarebbe arrivato fino in fondo e per quale motivo. Giovanna ha catturato la mia attenzione perché mi ricordava Anna Magnani, poi ho conosciuto la sua storia e il personaggio si è evoluto. Si è appropriata del film, come hanno fatto tutti i personaggi.
Ci sono delle scene che definiresti recitate? Ad esempio quelle di Giovanna che registra messaggi rivolti ai propri figli.
No, non le definirei recitate. Il desiderio di Giovanna era quello di ricucire il rapporto con i figli usando il film, così le ho messo in mano quel registratore un po' dubbiosa, temevo un effetto kitsch e invece ha funzionato, grazie a un tipo particolare di poesia che lei ha saputo mettere in quelle parole. Ho usato un metodo simile anche nei momenti in cui i personaggi si fanno delle confessioni e si raccontano il proprio passato. L'importante era non forzare ma semplicemente stare lì, magari filmando per molte ore finché le cose venivano fuori in maniera spontanea. La calma si è rivelata fondamentale, e in questo loro mi hanno aiutata molto. È stato come cogliere un fiore.
E il momento del vostro arrivo in Alaska?
Lì le cose sarebbero dovute andare diversamente. L'azienda purtroppo aveva avuto dei gravi problemi, due marinai erano morti in un incidente e si sono rifiutati di farci entrare nei loro spazi con le telecamere. In una prima versione del film avevo incluso la mia voce off che spiegava tutto ma poi ho preferito sfumare, mi sembrava che così la metafora sarebbe stata più efficace e il film sarebbe apparso come una fable contemporanea con dentro tanta verità. Anche perché ho delle amiche all'agenzia del lavoro e mi hanno spiegato che truffe del genere capitano molto spesso, non è infrequente che un'azienda prenda dei fondi europei, organizzi selezioni, corsi di formazione e poi sparisca nel nulla.
Come hai lavorato con la tua montatrice Danielle Anezin per definire il percorso narrativo?
Il montaggio è stato complicatissimo, avevamo accumulato tanto materiale. Se si fa attenzione, si nota subito la presenza di piccoli elementi di raccordo – ad esempio uno dei personaggi ripreso mentre sale sul tram – che sono stati evidentemente filmati apposta, in un secondo momento, proprio per venire incontro ad esigenze di sceneggiatura. Qualcuno, vedendo il film, mi fa notare che sembra "molto scritto" e in effetti lo è, ma non scritto sulla carta. Semmai, abbiamo applicato una scrittura a posteriori, al momento del montaggio. Del resto io vengo dal teatro, amo avere una visione drammaturgica degli eventi anche quando faccio cinema.
Nel film c'è una scena in cui due personaggi guardano Nanook l'eschimese di Robert J. Flaherty su un televisore. È stata un'idea tua?
In parte sì. Il ragazzo di Dario è un grande appassionato di musica e cinema, stavamo parlando di quel film e ci siamo detti "dai, guardiamolo insieme". Dario si è annoiato molto ma per me era importante mostrare quelle immagini di Nanook per due motivi: innanzitutto per il tipo di suggestioni legate alle storie dei pionieri e poi perché adoro Flaherty e il suo approccio al cinema documentario, fatto al tempo stesso di estrema verità ed estrema costruzione. Mi viene in mente anche una scena de L'uomo di Aran che mostra la disperazione di una donna. La vediamo strapparsi i capelli, è evidente che si tratta di qualcosa di artefatto. Eppure quella donna, per il suo aspetto, per l'abbigliamento, per il contesto in cui si trova, in un film muto, ci appare verissima. In questo senso le immagini di Nanook in Mirage à l'italienne danno anche una implicita chiave di lettura agli spettatori, suggerendo loro che li sto conducendo su un altro piano di realtà. Anche i momenti che vedono protagonista Camilla, la mia Marlene Dietrich, sono volutamente inquadrati in un'atmosfera da sogno, con una messa in scena marcata. Tutti piccoli segnali che indicano come il film navighi tra realismo e finzione. L'unica cosa che non sarei mai riuscita ad inventare sono queste persone.