Qualche giorno fa Jean-Luc Godard ha compiuto 90 anni. La bolla delle reti sociali l’ha festeggiato a dovere, con il solito florilegio di post celebrativi, riprese di frasi a effetto, frammenti di interviste, adorazione della sua figura sfuggente e della sua inconfondibile strafottenza. Una ripresa di ciò che era successo la scorso aprile, quando a sorpresa Godard era apparso in diretta su Instagram, nel ventre molle della balena della comunicazione e dell’esposizione mediatica contemporanea, a parlare di immagine, percezione e rappresentazione in mezzo a un oceano digitale di sorrisi e cuori in formato emoticon.
In pochi si accorsero che in quel modo, celebrato anche per il maglioncino verde che indossava, Godard finiva ingabbiato dal formato verticale delle stories, ridotto a icona e almeno inizialmente nemmeno troppo ascoltato (la chiacchierata con Lionel Baier dell'École cantonale d'art de Lausanne era in francese e senza simultanea; i sottotitoli inglesi sono stati aggiunti in un secondo tempo su YouTube) da un meccanismo comunicativo che prevedeva il maestro pontificante e il pubblico adorante, senza alcuna possibilità di interagire se non cliccando su un simbolo o commentando con parole che nessuno avrebbe letto.
L’effetto era onestamente straniante per chi da Godard ha imparato a guardare al cinema come a un dialogo (o meglio, a una richiesta di dialogo) e a un sistema comunicativo aperto. Il 3D di Adieu au langage, ad esempio, era un gioco di rimpalli dentro e fuori lo schermo che rendeva lo spettatore consapevole del fatto che ogni film dipende prima di tutto dai suoi occhi. E le sue straordinarie Histoire(s) du cinéma, ancora oggi la più lucida riflessione su cosa siano diventate le immagini dopo la fine della modernità, hanno imposto un metodo di analisi per cui il regista, e con lui lo spettatore, può trovare oltre le immagini e il loro accostamento un senso automatico che diventa universale.
Godard ha sempre dominato il cinema, e dal cinema si è fatto dominare, salvo rendere pubblico questo gioco a somma zero e così trasformarlo in un’ipotesi che spetta allo spettatore cogliere e riformulare: tesi, antitesi e sintesi, con quest’ultima affidata a chi guarda ed è presente nel film in quanto altro protagonista (o protagonista altrove).
Tra i filmati recuperati per l’anniversario godardiano uno in particolare, caricato dalla rivista online Birdmen Magazine, dava da pensare. Godard è in sala montaggio, fuma il sigaro ed è circondanto da schermi televisivi, videoregistratori e moviole. È il 1988 e Godard parla di Full Metal Jacket, trovando immorale l’uso del ralenti da parte di Kubrick e il modo in cui il Vietman viene sfruttato. Il film si rivolge solo agli spettatori, dice Godard, sfruttando qualcosa che il pubblico non ha. Cioè il rallentamento dell’immagine. Dice inoltre di non averlo guardato, «perché non avrebbe visto i vietnamiti, perché al film manca qualcosa, che è poi quello che è mancato all’America». Cioè il coinvolgimento personale in una guerra lontana, l’assenza di empatia verso un nemico sconosciuto.
Una cosa simile l’aveva già detta in Lontano dal Vietnam, quando invitava a lasciarsi invadere dal Vietnam, a rendersi conto di quale posto il Vietman occupasse nella vite di tutti, e più ancora in Pierrot le fou, quando faceva dire alla Marianne di Anna Karina che l’anonimato a cui erano condannati le vittime vietcong era un’ingiustizia: «Dicono 115 guerriglieri e per noi non significa niente, ma ognuno di loro è un uomo e non sappiamo chi è, se ama una donna, se ha figli, se preferisce il cinema o il teatro. Non sappiamo niente. Dicono solo 115 morti. Come le foto. Mi hanno sempre affascinato. Vediamo la foto di un ragazzo con una didascalia. Era un vigliacco, o no? Nel momento di fare la foto nessuno può dire quello che era, né ciò a cui pensava. A sua moglie? Alla sua amante? Al passato? Al futuro? Alla pallacanestro? Non si saprà mai».
Questa visione, folgorante all'epoca come oggi, nasconde l’idea che per Godard il cinema è stato e ha continuato a essere una risposta alla complessità del reale. E che quella risposta risiede nella possibilità di vedere, guardare, conoscere l’alterità – il soldato e il suo nemico, l’invasore e l’invaso, la tesi, l’antitesi e la sintesi offerta dal film.
Il dubbio che nasce riascoltandolo su Full Metal Jacket, e prima ancora vedendolo ridotto a idolo (lui che solo due anni fa ha avuto il potere di rendere indimenticabile Visages Villages semplicemente comportandosi da stronzo con Agnès Varda), è che in qualche modo Godard, il più grande interprete dell’immagine mai esistito, non abbia mai accettato l’idea della solitudine dell’immagine, continuando a credere nel montaggio, nella meccanica delle associazioni, come strumento per interpretare il mondo. Da genio qual è, l'ha intuito; ma non ha accettato che nel futuro ogni immagine avrebbe avviato un dialogo potenzialmente muto.