Per quanto sia misconosciuto, soprattutto in Italia, il cinema realizzato da Tim Sutton è sempre stato riflessivo, dalle lunghe cadenze, interessato alla condensazione delle situazioni. Anche questo Funny Face, visto nella sezione «Le stanze di Rol» del Torino Film Festival dopo essere stato presentato a Berlino nello scorso febbraio, ruota intorno a una struttura dalla narrazione sfibrata, in cui il senso dell’operazione è tutto nella relazione tra i personaggi e l’ambiente in cui si muovono e nel quale cercano, seppur accidiosamente, di non soccombere. Due misfits, conosciutisi per caso, si armano di un sentimento che pare rubato alla solitudine delle metropoli moderne e puntano a opporsi alla speculazione edilizia che una compagnia sta realizzando a Coney Island. Lei è una musulmana di famiglia tradizionalista, lui è un disadattato dalla pronuncia blesa che vive con i nonni senza interagirvi, pur essendo sdegnato dal fatto che i due anziani stiano per perdere la loro abitazione per via dei nuovi progetti di edilizia residenziale previsti nel quartiere. La loro è un’unione dei diversi condotta sul filo di una fiaba sognante, nella quale la maschera grottesca che illude sui poteri in grado di sovvertire l’ordine capitalista piove dall’alto, piombando su Coney Island senza un perché e senza un’origine, proprio come i due protagonisti, Saul (Cosmo Jarvis, già visto in questo festival in The Evening Hour) e Zama (Dela Meskienyar).
L’origine smarrita è il centro focale del film. Saul e Zama non hanno i genitori, Brooklyn non ha più la connotazione popolare di un tempo, sacrificata com’è al principio di una gentrificazione che punta a estromettere i residenti storici per sostituire progressivamente le loro abitazioni con costruzioni di lusso, la maggior parte delle quali non saranno mai occupate perché lo scopo è il riciclaggio di denaro, più che l’avvicendamento con le classi facoltose. Origine, sostituzioni, smarrimento dei riferimenti, così come sottolinea Saul in auto, in un rabbioso e scomposto monologo nel quale rivendica il suo disgusto per i Nets, la società di basket che ha guadato l’Hudson per trasferirsi dal New Jersey a Brooklyn otto anni fa. Smarriti, i due protagonisti Saul e Zama vagano per Brooklyn osservati con lunghe inquadrature alla ricerca di un centro di gravità travestito da voglia di vendetta. Un baricentro che il film procrastina in continuazione, di fatto negandolo, dotando la vicenda di una spinta centripeta che la strappa dall’oppressione edilizia che fa da sfondo per proiettare il continuo vagare della coppia in una dimensione onirica, perennemente sospesa, che si rifà a un preciso corredo di film, da Cosmopolis all’inevitabile Taxi Driver, per concentrarsi su una New York in procinto di essere rimossa.
Con una coerenza già dimostrata negli altri suoi film, con l’eccezione, probabilmente, di Il combattente, più vicino a dinamiche narrative mainstream, Sutton propone una visione interlocutoria, che assume valore solo per la sensazione suscitata nell’animo del pubblico rispetto alle azioni dei personaggi, accennate e incomplete, mai risolute, tanto desideranti quanto sempre frustrate. Un elogio della velleità in ogni suo aspetto, a partire da quella maschera grottesca, un po’ da Joker, un po’ da Guy Fawkes, che vorrebbe essere il simbolo dietro il quale celarsi per agire con poteri eccezionali e invece si dimostra l’ennesima illusione di un’esistenza vissuta senza mai incidervi. L’impressione è di una costante incombenza, con la macchina da presa che incede sempre in maniera infinitesimale verso il centro dell’inquadratura, fornendo una tensione prolungata quanto fittizia, perché induce a un’attesa vuota, che neanche lontanamente rischia davvero di essere soddisfatta anche se si dispone come se dovesse caricare il piano per poi farlo esplodere.
Una bomba volutamente caricata a salve su un’umanità che alla rabbia può solo opporre il vicendevole sentimento, anche questo spossato, privo di una vera passione, se non metaforica, suggerita durante un giro di ballo in cui si animano colori mai indossati prima. La nuova Brooklyn è un universo in cui è impossibile vincere per chi ha sempre perso e anche Saul e Zama lo comprendono, ancora una volta tramite un accenno, vale a dire bloccandosi in un parcheggio vuoto, privo di auto, l’immagine di una deriva che ha come unica consolazione quella di poter essere vissuta in coppia. Cullati dall’ombra dei nuovi grattacieli.