Influenzate dalle teorie femministe e queer degli anni Novanta, con i loro scritti, le due studiose Judith Halberstam e Cristina Isabel Pinedo ribaltavano la concezione per cui horror e slasher fossero semplicemente espressione della violenza maschile sulle donne, definendo una delle sue figurazioni cardine, la final girl – colei che sopravvive alla furia omicida maschile o ad altre calamità – nel segno dell’eclettica figura del cyborg: nuova “creatura” e soggettività politica che delinea un modo inedito di pensarsi nel mondo, rifiutando un senso o una narrazione impostole per ricercarne un altro al di là delle costrizioni cui si è da sempre state sottoposte. Il cinema horror degli ultimi anni è pieno di final girls, o meglio ancora surviving females, per riprendere l’espressione coniata da Pinedo: pensiamo alla furia vendicativa di Jen/Matilda Lutz nel bellissimo Revenge di Coralie Fargeat, presentato al TFF35, o alla recentissima performance di Elizabeth Moss in L’uomo invisibile di Leigh Whannel, el tentativo di neutralizzare uno stalker invisibile grossomodo come la protagonista di Lucky di Natasha Kermani, presentato nella sezione “Le stanze di Rol” al TFF38.
Nel caso del film scritto da Kermani e dalla stessa protagonista Brea Grant, che interpreta May, il nemico si presenta in carne e ossa, coperto in volto da una maschera biancastra che ne lascia intravedere dei tratti e ogni notte cerca di uccidere la donna nella sua abitazione. Lasciata dal marito in seguito a una lite, dopo innumerevoli e fallimentari richieste d’aiuto alla polizia che si dimostra pressoché assente o comunque tesa a far leva sulla presunta malattia mentale della protagonista – che (ovviamente) viene creduta pazza – May decide di cavarsela da sola: si arma anzitutto di coraggio, e poi di coltelli, corde, arnesi di ogni tipo per sconfiggere questa presenza demoniaca e che torna ogni notte nonostante la donna sia convinta di avergli inflitto non poche ferite.
Lo stalker di Lucky non è l'irruzione improvvisa e localizzabile del pericolo. Il pericolo che Kermani mette in scena è altresì sfibrante e si appropria di tutte le energie vitali di May per ridurla a uno straccio ed è una figura che, con il suo "invisibile" potenziale distruttivo, si riflette negli altri personaggi maschili del film. A partire dal marito, la cui presenza-assenza vuole incarnare il senso di colpa della donna per averlo tradito, fino al suo editor che a un certo punto afferma quanto May sia stata "fortunata" a pubblicare un libro.
Kermani dissemina in Lucky indizi e simbologie (prima fra tutte l’ambientazione domestica) per restituire l’idea che non basta fermarne uno solo per non piegarsi ai dogmi del patriarcato. Perché, come mostra anche il finale in cui May finalmente smaschera l’uomo, il nemico lo possiamo trovare ovunque; in casa, al lavoro, camminando per strada. La polizia e gli assistenti sociali rappresentano invece una burocrazia kafkiana invalicabile e che lascia inevitabilmente senza appigli. La sorella del marito come le altre donne sottoposte anch’esse alla medesima tortura di May sono la ripetizione infinita della condizione di straniamento e solitudine quando ci si rende conto che vivere equivale a un’eterna lotta: per una sopravvivenza fisica e morale. Ed è proprio il carattere onnipresente della minaccia e del continuo sentirsi sottochiave e seguite che Natasha Kermani vuole ricostruire attraverso uno slasher intriso di un’ironia e un sarcasmo sferzanti con cui insinuarsi – senza voler fare a nessuno lezioni di femminismo - nello stato mentale delle donne.