Il tempo di The Oak Room, presentato nella sezione "Le stanze di Rol" del Torino Film Festival, è un tempo malato. È come se si rompesse di continuo e inquadratura dopo inquadratura e stacco dopo stacco il regista Cody Calahan – come lui tutti gli altri narratori “interni” alla storia – facesse saltare le cronologie introducendoci in una dimensione spaziotemporale obliqua e plurima. Prima ancora che un neo-noir o un horror che si scorge in filigrana tra i rivolgimenti di certe immagini e sequenze e tutto giocato a livello di sottigliezza psicologica – se pensiamo ai traumi e fantasmi del passato di ognuno dei personaggi che riemergono nel corso del farsi e disfarsi della mise en abyme – The Oak Room attinge ai codici e agli stilemi del racconto fantastico più classico. Stratagemma evidente nella cornice narrativa stratificata e nella presenza di elementi e oggetti (l'orologio e la valigetta di tarantiniana memoria, la bottiglia di birra) che mediano nel multiverso della storia.
L'ambientazione è notturna e una violenta tempesta di neve fa da apripista al dipanarsi della narrazione. Paul è il proprietario di un bar in una piccola città canadese e poco prima di chiudere il suo locale fa entrare un vagabondo infreddolito di nome Steve. Tra i due sembrano esserci conflitto e amarezza e infatti, poco dopo, Steve ricorda all'altro un vecchio debito: il sipario si apre così su un’altra notte tempestosa, un altro bar, “The Oak Room” e un altro barista con un altro vagabondo. Ma anche dentro questa storia ce n’è un'altra, e poi un'altra ancora. Evocata da una fotografia chiaroscurale e dall’alternarsi di toni accesi e bui improvvisi dove possiamo scorgere solo il fumo di una sigaretta o le pupille di occhi dilatati e gelidi – come in un racconto di Henry James o Poe – la notte fa da sfondo all’intelaiatura di un racconto oscuro che si muove tra esplosioni di violenza efferata, apparizioni di presenze fantasmatiche e scambi di identità.
La nota fantastica di The Oak Room si fonda sulla ricerca dell’oltre e dell’impossibile. Di un ignoto che si realizza attraverso l’ingegnosa architettura della storia, caratterizzata dall’ambivalenza e dall’ossimoro. I personaggi che vogliono “incarnarsi” sono vite che vorrebbero – ed effettivamente possono: complice il potere della narrazione – nascere e che erano state relegate a una sfera immaginifica pulsionale e taciuta. La compresenza di sogno e freddo sgomento definisce il modo in cui vengono narrate le singole storie e un’altra cifra stilistica di Cody Calahan: quei cortocircuiti di senso e narrativi volti a destrutturare l’immagine, creando delle prospettive vertiginose labirintiche e impossibili dove lo spettatore non sa più trovare un senso o una via d’uscita. O un conforto: perché la narrazione è anzitutto lo spazio del dubbio e dell’incertezza ed è proprio in questa tensione che nasce e si consuma la paura.