Stalin non c'è più e Mosca sembra Parigi. Vertov incontra Godard, i giovani sovietici galleggiano dentro un tempo sospeso, l'ebrezza triste di un inedito individualismo, e Marlen Khutsiev insegue un ragazza bionda che inevitabilmente riporta alla memoria Monica Vitti (ma il regista georgiano diceva che il suo era “realismo lirico”, «non ha niente a che fare con Antonioni»). In realtà Stalin non c'era già da un bel po', e se n'era andato pure Krusciov, il simbolo della destalinizzazione dell'Urss (e pure dell'estetica del realismo socialista), che qualche anno prima, però, aveva causato la trasformazione de Il bastione di Ilič in Ho vent'anni, perché secondo lui Khutsiev aveva esagerato con lo “scontro generazionale”, quasi una demitizzazione degli uomini che avevano reso grande l'Unione Sovietica (Khutsiev, figlio di un uomo vittima delle repressioni del '37 ma sempre fiero comunista, pur nel dolore di quello scempio, ringraziò sempre Krusciov per il bene fatto al suo paese). Il regista georgiano nel '66 si era unito a tutti quelli che chiedevano a Breznev di non riabilitare Stalin. Era tornato il "gelo", e la disillusione.
Ma tutto questo è solo storia e contesto. Ciò che conta è che questa pellicola sovietica del 1967 è un'opera superba, un film poetico e politico, pieno di idee cinematografiche e di momenti magicamente strampalati, struggente a modo suo ma sempre lucido, melanconico e pure metafisico. Il restauro ci restituisce un'opera somma, proprio per la sua suggestiva indeterminatezza, la sua modernità sbilenca, che ha già assorbito tutto il nuovo che sta accadendo negli anni Sessanta (la protesta, la provocazione), lo innesta nel grande cinema sovietico sperimentale (la mitologia fondativa, a cui peraltro si rifaceva in parte quella protesta) e ne ricava una feconda frizione - nella forma oltre che nel contenuto – tra ciò che c'era e ciò che c'è (e ci sarà).
Godetevi, se potete, la prima mirabile sequenza, la macchina da presa che si muove lungo il traffico, guardando il passeggio di Mosca, rimbalzando a volte verso il marciapiede, mentre una radio cerca di sintonizzarsi sulla stazione giusta - ma poi giusta per chi, per cosa? - suona trionfante la Carmen di Bizet, musica pop, jazz, la tradizione, gente che parla, una radiocronaca, una mazurka, tra frammenti di Rinascimento, la grande arte, mentre il giovane piccolo cinema percorre la capitale. Ma non è più, non può più essere, solo un “uomo con la macchina da presa”. La camera adocchia una giovane donna, che per come è vestita e pettinata potrebbe anche camminare su un marciapiede francese. Non è l'unica che guarda verso la camera, ma tra di loro (l'occhio del cinema e il soggetto della storia) nasce un rapporto, una specie di gioco, dentro la polifonia visiva e sonora di Mosca. Grazie a lei finiamo dentro un pezzo di gioventù che non avremmo mai pensato di incontrare in quella città, in quegli anni. Lei, che non riesce e non vuole decidere della sua vita, ha un fidanzato, un uomo che ha tutte le qualità, ma ha anche un grande bisogno di libertà, che trova il suo sfogo misterioso in un incontro casuale, e la voce di un uomo (l'altro) con cui rimane a parlare per ore al telefono.
Questa generazione che è già post-sovietica, ma in un certo senso è ancora pre-moderna, vive la sua Vie en rose (sì, c'è anche questa nel juke boxe), da una festa in casa a un pic nic nel bosco e le chiacchiere intorno a un falò, dove un uomo, uno che canta bellissime e tristissime canzoni alla chitarra, rievoca un campo di lillà, circondato dalle mine e dai carri armati. I dialoghi sono spesso surreali, non-sense, ma hai l'impressione che ci sia sempre qualcosa di non-detto che sta sotto la superficie dei motti di spirito. Si evocano pubblicazioni coraggiose e pericolose, mentre i frammenti d'arte folgorante che ci avevano sorpreso a inizio film, diventano pagine stampate a migliaia in una tipografia, come si conviene nell'epoca della riproducibilità. È riproducibile a ripetizione anche il passaggio di un filobus, due, tre, quattro volte, in un montaggio (post?)ejzenstejniano, privato però del suo ardore concettuale. Il cielo sopra Mosca è bianco, vuoto, disegnato da trame di fili elettrici.
Si accendono i lampioni notturni, su un viale, dopo che Lena ha salutato il suo Volodja, in quello che è già una specie di addio, e se ne va mangiando una mela, con una luce negli occhi che la rende magnifica. Siamo in una strana epoca, quella della “sopravvivenza pacifica”, dove si impone una nuova ipocrisia nei costumi sociali. Si sta spesso insieme, ma tutti sembrano soffrire di solitudine, come se avessero giù nostalgia del collettivo, mentre temono di perdere quel po' di libertà che avevano trovato.
Lui e lei fanno propaganda in un palazzo, ma uno stacco ce li ripropone su una spiaggia, davanti a un mare agitato, a dirsi che sarebbe meglio essere a Mosca, dove li riporta all'improvviso un altro stacco, uno di fianco all'altro, in un'inquadratura frontale che misura l'incomunicabilità, dentro una delle proposte di matrimonio più tristi di sempre. «E se volessi rimanere indipendente? È possibile?»
Ma attenzione a non confondere le intenzioni di Khutsiev. Sì, Lena è una persona e anche un simbolo, la lettura meta-cinematografica e meta-politica è inevitabile, e anche indotta da certe immagini simboliche che attraversano il film, ma alla fine il regista georgiano – che ha continuano a muoversi tra narrazione e documento, sorprendendo moscoviti a passeggio, al lavoro, seduti su una panchina – si abbandona alla contemplazione dei reduci che si ritrovano a celebrare il Giorno della Vittoria sui nazisti, baci e abbracci commossi, orgoglio, memoria viva. Circondati da ragazzi che rimangono a guardarci, come se noi avessimo delle risposte per loro. Ridono, anche, alla fine. E noi pensiamo che di lì a poco i carri armati sarebbero arrivati a Praga, mentre un bambino ci guarda e sorride, facendosi spazio tra la folla.
Grande film, di un regista scomparso nel 2019, ammirato da Fellini, che qualche anno fa è stato omaggiato col Pardo alla carriera a Locarno, ma che rimane misconosciuto ai più, se non come l'autore di una “pietra miliare del disgelo”, come viene presentato di solito Ho ven'tanni, anche senza i 30 minuti eliminati dalla censura sovietica.