Già il nome di uno dei personaggi di Offseason (film presentato nella sezione Le stanza di Rol), Ava Aldrich, dovrebbe mettere in avviso lo spettatore avveduto: Ava come la Gardner, e soprattutto Aldrich come l’autore di alcuni dei film horror che ispirano questo film di Mickey Keating, da Che fine ha fatto Baby Jane a Quando muore una stella a L’assassinio di Sister George. In verità, è la prima parte, quella del viaggio della figlia dell’Ava in una isola misteriosa separata dalla terraferma da un ponte levatoio perché ha saputo che la tomba della madre è stata vandalizzata, a richiamare le atmosfere gotiche di Aldrich e, anche, del Jacques Tourneur del capolavoro Ho camminato con uno zombie.
Infatti, l’isola, da qualche parte del Nordovest americano, è infestata da zombie e da presenze fantasmatiche, che ossessionano la protagonista, distruggono suo marito e cercano di spaventare lo spettatore, senza riuscirci peraltro. Una colonna sonora di stridii, brontolii, fruscii e bisbiglii, oltre che di misteriose cantilene, accompagnano un film avvolto perennemente nella nebbia (il trucco dei filmetti di serie B per nascondere la povertà della produzione) e zeppo di apparizioni, fantasmi e quant’altro. Nulla di nuovo, anzi questa è la cifra vera del regista, innamorato perso del citazionismo cinematografico. La seconda parte, invece, si appoggia piuttosto agli horror più recenti di Carpenter (soprattutto Il seme della follia e Il villaggio dei dannati) e di Tobe Hooper e del suo epigono Rob Zombie (il ristorante Sand Trap, la cittadina deserta e priva di vita, la visita al Museo di Storia, con i suoi manichini…). Il problema è che il tutto scorre senza suscitare alcuna emozione, non parliamo di paura…. In altre parole, l’esercizio di ricalco si risolve in qualcosa di sostanzialmente stucchevole, senza che la regia riesca mai ad accendere il tutto. La protagonista, totalmente incapace di recitare peraltro, deambula per tutto il tempo in lungo e in largo per l’isola maledetta, fino a farne parte per sempre, diventandone un’ altra abitante (qui, difficile non scomodare l’ending del Kubrick di Shining). Naturalmente, c’è anche un risvolto sovrannaturale, che scomoda addirittura la presenza di un demone con cui si è fatto un tempo un patto diabolico (ancora, il Carpenter di Fog e il Tourneur di La notte del demonio).
Anche nel cileno Immersion di Nic Postiglione non è difficile andare con la memoria a film del passato, dall’ovvio Ore 10 calma piatta a River Wild - Il fiume della paura a, si parva licet, Un tranquillo weekend di paura. In un grande lago cileno contornato da una grande selva, si muove una imbarcazione condotta da un ricco bastardo e razzista, con le due figlie al seguito. Vanno a visitare una dimora abbandonata e diroccata che lui vuole vendere, essendone il proprietario assieme al fratello. Lungo il tragitto, però, si imbattono in un barchino che sta per affondare. A bordo tre indios mapuche dall’aspetto non raccomandabile. Basta questo per scatenare nel protagonista una irrefrenabile paranoia. Convinto di correre dei rischi, abbandona gli uomini al loro destino. Sotto le pressioni di una delle figlie, ci ripensa, e dopo un po’ torna indietro e fa salire a bordo due dei tre indios: il terzo, che si era avventurato a nuoto, non si sa che fine abbia fatto.
Inizia ora un gioco a rimpiattino che però, con i suoi continui contorcimenti e cambi di prospettiva, finisce per ammazzare quella suspense che sulla carta doveva essere la carta vincente del thriller. Troppe volte, il padre e le due figlie cambiano idea sul che fare, andarsene o soccorrere, castigare gli indios (scopriamo che la vecchia casa sul lago è diventata il loro rifugio nascosto) o chiedere il loro aiuto quando serve. In tempi alterni, quasi tutti i personaggi finiscono in acqua, e alla fine ci scappa il morto. Non voglio spoilerare, ma è abbastanza evidente che il finale suona come il contrappasso quasi inevitabile della premessa di un ricco stronzo che vede nemici e criminali ovunque. Il finale, in particolare, suona come il ribaltamento dell’incipit, con quelle grida di aiuto che si dipanano dalla imbarcazione in panne al centro del lago, ormai avvolta dalle tenebre del tramonto, isolata da tutti e da tutto e da ogni speranza di soccorso. È chiaro l’intento di una critica sociale del razzismo e del classismo della borghesia cilena, ma il tutto pare un po’ troppo programmatico, e le continue giravolte della trama, le coincidenze stupefacenti e i cambiamenti repentini, congiurano per togliere non solo suspense ma credibilità alla storia nel suo complesso. Alla fine, in un’opera che suona troppo a tesi, il valore maggiore del film è rappresentato dall’interpretazione come sempre ricca di sfumature di Alfredo Castro.