Nato nel 2002, con l’obiettivo – si dice – di ravvivare il quartiere del World Trade Center all’indomani di 9/11, il Tribeca Film Festival è ormai diventato una vera e propria istituzione, a New York e non solo. Si tratta infatti del terzo appuntamento dell’anno per il cinema indipendente americano, dopo il Sundance di Park City in Colorado e il South by Southwest (SXSW) di Austin, Texas.
Cercando di destreggiarsi – non sempre con grande equilibrio, c’è da dire – tra i red carpet e i party glamour di Chelsea e la pletora di professional e publicist che tentano nei modi più spregiudicati di vendere a un distributore o a una rete tv i propri film, il festival è con gli anni diventato anche un popolarissimo evento mondano per i newyorchesi di ogni tipo, che affollano le sale a tutte le ore del giorno e della sera e che spesso pagano cifre non proprio popolari per accaparrarsi gli ambitissimi biglietti per i film in programma.
Da quest’anno il festival ha anche spostato un po’ più a nord il proprio baricentro, aprendo il nuovo hub nello Spring Studio, un grande edificio a più piani al confine tra i quartieri di Chelsea e Tribeca che fa da centro delle iniziative del festival. La quantità di persone che riesce ad attirare il TFF è impressionante e visibile anche per una città come New York, che non lascia facilmente che il proprio equilibrio venga perturbato nemmeno dagli avvenimenti più imponenti.
Sul settimane Village Voice si decantano le ricadute economiche del TFF per la città e tuttavia verrebbe da chiedersi un po’ malignamente quanti di questi appassionatissimi giovani publicist – di solito tra i 20 e i 30 anni – che si vedono ovunque e che vengono sguinzagliati in giro per Manhattan dalle produzioni e dai distributori dei film lavorino come “stagisti” – come ci è capitato di venire a sapere parlando con alcuni di loro –: un segno inequivocabile che l’abitudine di sfruttare la passione dei più giovani per approfittarsi di un po’ di lavoro non pagato non riguardi solo l’EXPO di Milano o il comparto italiano della cultura, ma che sia un’abitudine ben più radicata, anche dall’altro lato dell’oceano.
In generale l’impressione che si ha è che gran parte dei professional di Tribeca siano qui alla ricerca del nuovo Whiplash o del nuovo Winter’s Bone o Meek’s Cutoff, dopo che da qualche anno a questa parte il cinema indipendente americano è riuscito in ogni stagione a trovare un grande successo commerciale, che poi con un po’ di fortuna venga pure incluso nelle candidature degli Oscar. Un film cioè che venga “accettato” nella famiglia delle major, spesso al prezzo di dover vedere celebrate alcune delle pellicole più conservatrici e convenzionali che siano state prodotte nel recente passato (…appunto, Whiplash).
Perché il cinema indie americano negli ultimi anni pare essere entrato in una spirale davvero poco entusiasmante: non solo non è più in grado di fare da detonatore di spinte sperimentali e propulsive generali, ma pare essersi ormai ridotto a fare da brutta copia del cinema hollywoodiano più deteriore. Più che di cinema indipendente sembra ormai di trovarsi di fronte a del cinema mainstream di riserva: di fatto coerente con le norme dominanti del visivo contemporaneo, ma prodotto con mezzi economici più scarsi e con autori meno blasonati. E spesso – ahinoi – anche con meno idee. Ci sono certo, diverse lodevoli eccezioni – ci sono stati Jeff Nichols o David Robert Mitchell ad esempio – ma ci paiono più delle mosche bianche che dei veri e propri prodotti del sistema Sundance/Tribeca/SXSW.
In questa prima metà di festival tuttavia alcune cose interessanti ci è capitato comunque di vederle. Ad esempio ci ha fatto piacere vedere subito in apertura di festival ben due western contemporanei: Loin des hommes di David Oelhoffen, già passato in concorso al festival di Venezia e sul quale già scrisse dal Lido Rinaldo Vignati, e Mojave di William Monahan (già sceneggiatore di Kingdom of Heaven di Ridley Scott, The Departed di Martin Scorsese e del secondo Sin City di Robert Rodriguez).
Non ci soffermiamo sul primo, sul quale il lettore di Cineforum ha già avuto modo di leggere, se non notando che nonostante le interpretazioni di Viggo Mortensen e Reda Kateb, ci è parso che la lettura multiculturalista e pacifista che il regista ha voluto “appiccicare” al film, ingenua e manichea oltre ogni tollerabilità, abbia finito per azzerare la problematicità che il testo di Camus poteva invece dare alla pellicola.
Piuttosto interessante invece Mojave di Monhan (nella foto), la storia di un attore hollywoodiano in crisi esistenziale e con una fisicità autodistruttiva e indomabile (interpretato da Garrett Hedlund), che si isola nel deserto del Mojave fuori da Los Angeles e incontra Jack, un misterioso vagabondo (Oscar Isaac) col quale inizierà un confronto antagonistico senza esclusione di colpi. Da buon western, Monahan decide di “positivizzare” la tensioni interne del protagonista in una figura esterna, che non ha alcuna sostanza psicologica se non quella di “mettere in forma d’azione” la dimensione negativa del protagonista (il personaggio di Chris Isaac cambierà identità, aspetto, comportamento, con l’unico obiettivo di dare corpo alla volontà di eliminazione del protagonista). Non ci vengono date delle ragioni, né degli elementi di contesto per leggere questo rapporto: è solo la sua natura plastica e cinematografica che ne dà sostanza, nel bellissimo scenario del deserto del Mojave e della città di Hollywood (il film è per metà un western e per metà un thriller urbano, senza soluzione di continuità). Cinema puro, insomma.
Un po’ meno esaltanti le commedie viste fin’ora nella sezione “Spotlight”, quella dove passano i film più celebrati del festival (tra i quali vi è anche la premiere nordamericana di Maraviglioso Boccaccio dei Taviani). Tra questi abbiamo visto Dirty Weekend di Neil LaBute: uno che dopo aver collezionato uno dopo l’altro diversi insuccessi commerciali a Hollywood, si è concentrato sulla scrittura e sulle regie teatrali. Cosa che è visibile in questa gradevole commedia, che è quasi una sit-com sul filo dell’assurdo su due colleghi di lavoro (Matthew Broderick e Alice Eve) che a causa di problemi con l’aereo, sono costretti a passare insieme un giorno interno ad Albuquerque in New Mexico e a svelare alcuni segreti della loro vita sessuale (lui, che aveva avuto una precedente relazione extra-coniugale proprio ad Alburqueque, di cui però non ricorda nulla per effetto dell’alcol, e lei che invece è in una relazione sadomaso submissive).
Poche emozioni anche in Ashby dell’australiano Tony McNamara (con Nat Wolf, Emma Roberts, Mickey Rourke e Sarah Silverman) che non si discosta dal più classico e convenzionale dei coming-of-age di ambientazione liceale e che infatti riprende tutti i topos del genere: il passaggio dall’adolescenza all’adultità che si esprime nel successo sportivo e nella potenza sessuale; il sub-plot famigliare, ovvero il fatto di dover fare i conti con l’assenza del padre biologico e con l’investitura di un padre simbolico (uno splendido e morente Mickey Rourke, che già dopo i primi minuti di film sa di avere una malattie terminale); e poi – variante postmoderno-libertina – l’accettazione di una madre, che dopo essere stata piantata dal marito rivendica anche in non più giovane età e anche di fronte al figlio, la propria libertà sessuale.
Inqualificabile invece The Overnight di Patrick Brice (con Taylor Schilling di Orange is the New Black e Jason Schwartzman) una sorta di versione contemporanea di Bob & Carol & Ted & Alice dove una mediocre coppia medio-borghese si trasferisce a Los Angeles e viene invitata a cena dalla classica coppia californiana un po’ artistoide e un po’ anticonformista: dopo qualche bicchiere di troppo e qualche sostanza psicotropa le due coppie si lasciano andare, anche e soprattutto sessualmente, e finiscono per mostrare la vera natura dei loro desideri più nascosti. Il film, che non si lascia mancare nulla, dagli interminabili dialoghi in cui si disquisisce sulla lunghezza del proprio membro agli hand job dei massage parlour cinesi, dalle battute sul sesso anale maschile alle orge vere e proprie, è suo malgrado sociologicamente interessante perché ci dà la misura della natura schiettamente conservatrice del libertinismo contemporaneo. Il fatto che dopo la notte di trasgressione, la mattina si ritorni alla quotidianità medio-borghese ne è solo l’ennesima e noiosissima prova.
Sempre per rimanere nella sezione “Spotlight” un po’ più interessante ci è sembrato il dramma familiare When I Live My Life Over Again di Robert Edwards, con Christopher Walken nella parte di una vecchia gloria decaduta del pop traditional (una sorta di Tony Bennett o Barry Manilow fallito) e Amber Heard, nella parte della figlia punk depressa e inibita dall’onnipresenza del padre. Su un canovaccio tra i più tradizionali e tra i più sfruttati che uno si possa immaginare, Edwards riesce comunque a imbastire una bella riflessione sulle relazioni famigliari, e soprattutto su come spesso i sintomi famigliari vengano trasmessi di generazione in generazione.
Per ora però le cose più interessanti si sono viste nella sezione “Narrative Competition” – in Bare di Natalia Lete, ma soprattutto nel bellissimo Dixieland di Hank Bedford, per ora il film di gran lunga più interessante visto quest’anno a Tribeca – o nella sezione dei documentari – dove sono passati Cartel Land e (T)error, due pellicole che spingono ai limiti e interrogano profondamente (anche in modo problematico) l’etica del filmmaker o In Transit, l’ultimo bellissimo film di Albert Maysles. Ma di questo parleremo nelle prossime puntate.