Cosa ce ne facciamo adesso del piano sequenza? Adesso che non sembra più essere, neppure per i cinefili più accaniti, il segno distintivo della più avanzata modernità cinematografica, come invece è stato per parecchi decenni? Il piano sequenza sembra anzi essere diventato un modo stilistico vecchiotto, un vezzo quasi avvizzito che segnala una certa qual arretratezza di visione e di messinscena. Da segno distintivo della modernità d'autore è stato declassato, dopo tanto uso sconsiderato, a oggetto impolverato, quasi un'anticaglia.
Due film della Mostra ripropongono invece la questione del piano sequenza: e non di un piano sequenza di qualche minuto. Di un piano sequenza che dura quanto l'intero film. Veri e propri piani-film (non che sia la prima volta, ma la cosa non è neppure molto frequente). 84 minuti per Ana Arabia di Amos Gitai e ben 127 minuti per Mahi Va Gorbeh (“Fish & Cat”) dell'iraniano Shahram Mokri.
I due film, insieme a tante altre domande, si pongono anche quella sul perché usare un piano sequenza totale, lungo tutto un film. Gitai sembra voglia chiedersi se il guardare a lungo, insistentemente, senza mai staccare lo sguardo, sia l'unico modo giusto per poter finalmente vedere e mostrare quello che, troppo spesso, nel suo paese, non si vuole vedere e mostrare: la presenza dell'altro, degli altri. Mokri sembra chiedersi quanto lo strumento del piano sequenza, del piano-film, possa essere ancora fondamentale per costruire una molto elaborata, attraente, abissale, rimescolata e spaesante risistemazione di ogni spazio e di ogni tempo narrativo e linguistico.
Piano sequenza, strumento desueto? O invece ottimo e come nuovo quando qualcuno lo sa usare per vedere mostrare dire significare cercare? Si osservi come la zona conclusiva dei due piani-film sia uno sbocco efficace al lungo percorso dell'obiettivo. In Gitai, il Mahler della prima sinfonia “Il Titano”, con le note di “Frère Jacques” che deve svegliarsi e suonare le campane, suona come un esplicito richiamo agli israeliani perché finalmente si sveglino. Nel film di Mokri, quell'alzarsi finale è l'abbandono di uno spazio-tempo labirintico e avvoltolato su se stesso: è voglia di un altro paese?