Le Terrazze del titolo del film (Es-stouh), opera di Merzak Allouache, sono quelle che sovrastano gli edifici della capitale algerina, luoghi dove gli abitanti dei palazzi, popolari o meno, si ritrovano (si ritrovavano) per socializzare, per godere del bellissimo paesaggio della baia e del porto, per festeggiare (un matrimonio, per esempio), ma che oggi, secondo il regista, sono anche diventate luoghi di violenza e di precarietà, sinonimo delle tensioni che sta vivendo la società algerina contemporanea, apparentemente ormai lontana dalle tensioni che hanno caratterizzato il decennio precedente attraversato dalla violenza terrorista.
Cinque storie si intrecciano nel corso di una narrazione scandita dalle cinque preghiere che il Muezzin lancia dagli altoparlanti e che scandiscono il tempo della giornata e della notte. Una povera famiglia riceve uno sfratto, un gruppo musicale cerca di provare in vista di un concerto, una giovane donna li guarda (dalla terrazza di fronte) piena di ammirazione (ma sotto cova un dramma umano), mentre un gruppo di individui tortura una persona per fargli firmare un misterioso documento.
Una serie di microcosmi e di personaggi entrano ed escono dalla narrazione di un film che non cerca di spiegare niente, non gioca la carta della facile indignazione, non vuole enfatizzare gli eventi, ma cerca, attraverso un registro “in levare”, di raccontare una società apparentemente pacificata dove in realtà bolle un magma in cui modernità e tradizioni, vecchi riti e nuove tecnologie, si scontrano fatalmente.
Il regista franco-algerino entra in punta di piedi in questi microcosmi, scruta con la sua macchina da presa un’umanità dolente (lo zio tenuto letteralmente in gabbia), alle prese con le tensioni stridenti tra passato e presente (la figura del guaritore), una violenza strisciante nei rapporti di forza tra chi ha e chi non ha, il divario sempre più ampio tra ricchi e poveri, la voglia (soprattutto, ovviamente, tra i più giovani) di uscire da questa impasse.