Che fattezze avrebbe il nostro mondo se fosse guardato da un occhio estraneo come quello di un alieno? Cosa guarderebbe? Che aspetto avrebbero le persone che ci circondano, i luoghi che attraversiamo, i paesaggi che sono all’orizzonte? Jonathan Glazer, nel suo adattamento del libro Under the Skin di Michael Faber, presentato in concorso a Venezia, sembrerebbe voler porsi questa domanda, almeno stando alle sue dichiarazioni. Si tratterebbe dunque di un'ulteriore versione di uno dei più antichi e comuni fantasmi inconsci: quello di vedere il mondo come se noi non ne facessimo parte. O detto nei termini propri della fantascienza: vedere gli umani come se non lo fossimo.
Queste le intenzioni. Tuttavia il film finisce invece per rovesciare completamente le carte in tavola. Perché Under the Skin non ci parla dell’oggetto di questo sguardo – il nostro mondo – ma della logica interna e dell’identità di questo occhio che guarda, la cui immagine in primissimo piano vediamo proprio all’inizio della pellicola. Si tratta di un’aliena, scaraventata sulla terra, che assume le sembianze di una donna (Scarlett Johansson) e che se ne va enigmaticamente in giro per le strade della Scozia a raccattare passanti e autostoppisti. Una volta sedotte, le prede vengono portate in una casa dove entrano in una strana dimensione spaziale uniformemente nera, per essere poi immerse in un liquido misterioso e scomparire.
Ma chi è questa aliena? Che cosa vuole dalle sue prede? Cosa sta cercando? Glazer gioca volutamente e non sempre in modo soddisfacente sul filo dell’ambiguità e del non detto, con immagini evocative ed estetizzanti (non sempre se ne riesce a comprendere fino in fondo la ragione) e una fotografia un po’ fastidiosamente leccata da regista di videoclip quale è. Tuttavia il materiale che sta sotto è incandescente, ed è lì che il film trova la sua parziale redenzione.
Perché in questa un po’ paradossale psicologizzazione dello sguardo alieno vi è un’affascinante riflessione sul rapporto col corpo che l’aliena veste proprio come se fosse un abito. Il personaggio di Scarlett Johansson non è il suo corpo, ma ha il suo corpo. All’inizio del film il corpo è usato come arma di seduzione delle sue prede, ma poi, una volta guardatasi allo specchio, diventa un vestito ingombrante e incomprensibile.
Quando Scarlett Johansson si ferisce, guarda con aria stranita quella cosa rossa che esce dalle sue mani; quando mangia una torta la vomita con disgusto senza capire perché lo faccia. Insomma che cosa è questo corpo? Di chi è? Nella scena di sesso con un umano – un sesso che l’aliena vive senza capirlo, senza identificarcisi – si desta con terrore quando scopre una parte di sé di cui non sospettava l’esistenza.
L’interesse di Under the Skin non sta allora tanto nello sguardo straniato di chi sta al mondo senza farne parte, ma nell’idea di rappresentare la distanza che separa un soggetto dal proprio corpo, il fatto che – come insegna la psicoanalisi – tra i due non ci possa mai essere una soddisfacente e definitiva sovrapposizione. Tramite le vicende di questa enigmatica aliena finisce allora per venire alla luce un’efficace riflessione sul rapporto degli esseri umani con il proprio corpo. Perché non c’è cosa che definisce in modo più limpido gli esseri umani che non quella di avere un rapporto mai risolto con il corpo che ci portiamo appresso. Non capita forse a tutti quando ci si guarda allo specchio di chiedersi: “ma allora, chi siamo?”