Abbiamo incontrato Andrea Pallaoro, regista esordiente di Medeas, film presentato nella sezione Orizzonti. Ci ha parlato della sua esperienza di regista italiano “emigrato” negli Stati Uniti, ma anche di molto altro.
Comincerei con il chiederti il perché di un titolo così evocativo e allo stesso tempo così fortemente riferibile al mito classico.
Medeas ovviamente rimanda al mito di Euripide, ma nello stesso tempo anche alle molteplici riflessioni e rielaborazioni che il mito stesso ha conosciuto in tutte le arti successive: il cinema, il teatro, la letteratura… Il mio è un tentativo di rielaborare in chiave contemporanea il mito classico, e questo mi ha dato la possibilità di esplorare un estremo del comportamento umano. Credo infatti che l’infanticidio rappresenti la disperazione umana in una delle sue forme più estreme.
Qui però c’è uno slittamento, uno spostamento di significato rispetto al mito di Euripide.
Esatto. In realtà devo dire che esplorando e studiando il personaggio di Medea mi sono accorto come la sua psicologia venga spesso accostata a un universo molto più maschile che femminile. Infatti, dopo alcune ricerche molto approfondite, ho scoperto che le ragioni per le quali Medea finisce per compiere l’omicidio dei suoi figli hanno a che fare molto più con il maschile che col femminile. Nel mio film ho pensato di seguire questo tipo di idea.
Dal punto di vista registico come hai lavorato? Il tuo è un film fatto con pochissimi dettagli formali: c’è il paesaggio, ci sono molti campi lunghi e poi tanta attenzione ai corpi. Come hai lavorato sulla messa in scena?
Fin dall’inizio ho voluto dare importanza alle emozioni dei personaggi. La trama e i dialoghi mi interessavano meno. Medeas è un film nel quale i dettagli percettivi e sensoriali hanno un’importanza maggiore rispetto a quelli prettamente narrativi. La mia intenzione, dal punto di vista registico, è stata quella di evitare di “manipolare” lo spettatore. L’assenza della colonna sonora e l’uso del suono diegetico, per esempio, vanno in questa direzione. L’interazione fra il paesaggio e la macchina da presa è stata impostata proprio in modo che lo spettatore entrasse nell’universo dei personaggi e non venisse manipolato dal mezzo cinematografico.
Sempre a proposito del paesaggio: l’ambiente in cui il film è girato sembra quasi un ulteriore protagonista del film. Ma anche una metafora di quelle che sono le emozioni dei personaggi e della loro condizione.
È assolutamente così. Per me il paesaggio è il modo per rendere visibile quello che i personaggi provano. Il deserto è stato scelto come location proprio perché diventasse la metafora del sentire dei protagonisti del film.
E dove hai girato di preciso?
In California, l’estate scorsa, a circa un’ora e mezza di auto da Los Angeles.
Come hai lavorato con gli attori sul set, qual è stato il tuo rapporto con loro?
È stata una collaborazione che ricordo molto positivamente, sono stato fortunatissimo ad aver potuto lavorare con persone come loro, artisti che si sono dedicati con grande entusiasmo e attenzione al proprio ruolo. Abbiamo discusso e parlato molto sul set e abbiamo provato tutto quanto sempre insieme. Cercavamo di trovare il significato di ogni scena e il modo giusto per interpretarla sempre in gruppo. È stato un vero lavoro collettivo.
A livello enunciativo credo che le cose che colpiscono maggiormente siano il silenzio e l’assenza quasi totale di dialoghi. Hai scelto una protagonista femminile sordomuta, si può dire che quello che esercita sugli altri è come una specie di contagio, un silenzio che asciuga completamente i rapporti fra i familiari?
La scelta di fare della protagonista una sordomuta è dovuta alla mia intenzione di dare un accento ancora maggiore al senso di incomunicabilità e di marginalizzazione nel quale versano le vite dei personaggi. Sono sempre stato molto interessato ai temi dell’emarginazione e credo che i sordomuti in qualche modo rientrino in questa categoria. Per questo motivo ritengo che l’alienazione, di cui il personaggio della non udente si pone come metafora, diventi uno dei temi forti del film.
E' molto difficile inquadrare la storia, non si capisce bene né dove siamo, né quando. Oltre al deserto che non dà punti di appiglio, di fatto non capiamo mai davvero in che anno siamo. La tv in bianco e nero, le auto senza una precisa età, la mancanza di oggetti della modernità (telefoni, computer, ecc.) sono elementi che ci fanno perdere qualsiasi coordinata temporale.
Mi fa molto piacere che si sia notata questa cosa. Sì, in effetti è stata una scelta molto precisa da parte nostra. Non volevamo esplicitare né il luogo né il tempo in cui si svolge la storia. L’intenzione era quella di creare un ambiente e un’atmosfera che fossero universali ma anche unici nello stesso momento.
Osservando il film viene facilmente in mente il cinema di Terrence Malick: soprattutto per via dei colori e dell’ambientazione. Il regista americano è stato fonte di ispirazione per te?
Malick è un regista che stimo molto, molti altri hanno paragonato Medeas a qualcuno dei suoi film. Questa cosa, come è ovvio, mi lusinga molto, ma in realtà non c’è stata alcuna intenzione da parte mia di fare una cosa "alla Malick". Devo dire che piuttosto un regista che è stato un vero punto di riferimento e una grande fonte di ispirazione è Michelangelo Antonioni. Un autore che a mio avviso, soprattutto nei suoi film americani, sa raccontare il paesaggio in un modo unico.
Per un regista italiano girare in America è sempre una sfida, una cosa tutt’altro che semplice. Significa confrontarsi con tutto un immaginario, cinematografico e non, e con una cultura molto particolari, ma anche affrontare storie produttive del tutto diverse da quelle di casa nostra.
Io non vengo dal mondo del cinema, nel senso che nessuno nella mia famiglia si è mai occupato di cinema, quindi il mio background è del tutto diverso, ma devo dire che negli Stati Uniti, che mettono la meritocrazia in cima a tutto, ho avuto la possibilità di fare il mestiere che faccio, una cosa che in Italia non credo che sarebbe mai potuta accadere. Per questo motivo sono molto felice di essere andato a vivere e lavorare là.
Ti andrebbe di parlarci della tua storia, di come sei diventato un regista “americano”?
Io sono nato a Trento e a diciassette anni sono andato in Colorado per fare l’ultimo anno del liceo. Pensavo di tornare in Italia per proseguire gli studi e invece ho cambiato idea e ho studiato regia all’Hampshire College in Massachusetts, mi sono laureato lì e poi sono andato a Los Angeles dove ho frequentato il Directing Program del California Institute of the Arts. E tutto questo mi ha dato la possibilità di realizzare questo mio primo film e sto già lavorando al prossimo. Tornando alla domanda precedente, credo di poter dire che in Italia una produzione come quella di Medeas, benché non sia stata comunque facile, forse sarebbe stata del tutto impossibile.
Un’ultima cosa: come mai Patty Pravo?
(ride) Beh, Patty Pravo è sempre stata una delle mie cantanti italiane preferite. Ruth, la ragazzina adolescente del film, fantastica di andarsene via, vorrebbe viaggiare e forse sogna di venire proprio in Italia (che è praticamente un po’ l’inverso di quello che ho fatto io!). La canzone di Patty Pravo che sentiamo nel film è un po’ la rappresentazione di tutto questo.