Agli inizi degli anni ’30 Rudolph Arnheim denunciò come l’introduzione del sonoro avrebbe privato i film del loro valore artistico, rendendoli di fatto indistinguibili dalla realtà, in un abbraccio mimetico così stretto da non lasciare spazio alla categoria della differenza. Il regista americano Bill Morrison con il suo Dawson City: Frozen Time, presentato ieri a Venezia, nella sezione Orizzonti, sembra di contro voler dire che il cinema, con o senza sincronizzazione sonora, è invece sempre stato immagine differente, ripresa di un movimento differito nel tempo della sua ricezione.
Il film comincia con il ritrovamento, nel 1978, in una piscina di Dawson, centro della regione subartica dello Yukon (Canada), di 500 scatole contenenti pellicole di film muti d’autore e di filmati amatoriali che raccontano la vita della città. In un arco temporale di circa trent’anni, dai primi decenni del ’900 agli anni ’30, quei frammenti fanno parte della storia di Dawson, raccontano in maniera diretta o indiretta la famigerata corsa all’oro nel Klondike, la nascita della città di Dawson, lo straordinario diffondersi della febbre estrattiva, l’espansione selvaggio e poi il declino di un mondo avido e violento, desideroso di denaro e divertimento. Il seppellimento delle pellicole risale agli anni ’30, all’arrivo dei film sonori, quando gli esercenti e i detentori dei diritti di distribuzione dei film, volendo disfarsi di film ormai inutile, gettarono buona parte dei loro archivi nel fiume Yukon o, per l’appunto, lo sotterrarono.
Morrison fa rivivere quelle pellicole mute (con il tempo salvate, restaurate, catalogate, studiate), rimontandole con una poetica operazione di found-footage dove la forma sembra più che mai coincidere con il contenuto. Il regista fa sua la lezione di Ejzenstejn, in quanto rende evidente come la vera lingua, la vera voce di un film, risieda nel montaggio; come il montaggio, divenendo responsabile del contenuto dell’opera, assuma immediatamente un valore etico. La lezione è ravvisabile soprattutto nelle geometrie tracciate da Morrison: la direzione circolare della macchina dragatrice che setaccia l’oro, le donne turbinanti dei primi film muti, il montaggio lirico che procede per accostamenti sinestetici e metaforici tra la storia del cinema e quella di Dawson.
Se da un lato Dawson City si rifà alla tradizione del film-saggio, con lo zoom sulle fotografie d’epoca che rimandano alla Jetée e all’essenza del cinema in quanto susseguirsi di fotogrammi, dall’altro aderisce a questa tradizione con un intento più documentaristico, dunque didascalico e divulgativo, nella misura in sono citati molti film e registi d’epoca.
Le pellicole rovinate dall’acqua, nelle quali l’immagine è circondata da una schiuma bianca, sfociano poi, a volte, nella video-arte, con la schiuma stessa o il bordo che invadono il campo e fanno emergere un dettaglio, un occhio, un oggetto... L’effetto del tempo diviene così un valore aggiunto al senso del tempo nel film.
Rispetto alla leziosità di Spira Mirabilis, Dawson City rimanda a una dimensione primitiva dell’essere. Come se fosse un frammento di filosofia presocratica. L’acqua è il fiume che scorre, conserva e distrugge alla stessa maniera del fuoco, che ha permesso la nascita del cinema (le prime pellicole erano infatti di nitrato altamente infiammabile), ma anche, per le stesse ragioni, la sua distruzione.