Vedendo El ciudadano ilustre non si può non rimanere colpiti dalla qualità della scrittura, dalla costruzione della sua struttura narrativa e dai dialoghi che fanno interagire con estrema finezza una pluralità di registri linguistici. È quindi con grande piacere che abbiamo fatto quattro chiacchiere con lo sceneggiatore del film, Andres Duprat. Trattandosi di un argentino, anche se si parla di cinema, è inevitabile che ogni tanto ci scappi il nome di Messi...
Come è nata e come è stata sviluppata l’idea del film?
Io sono uno scrittore che prima di iniziare a scrivere deve avere chiara in mente tutta la struttura del film, dal principio alla fine, almeno nelle sue linee generali. Conosco altri scrittori che invece scrivono come Messi gioca al calcio, cominciano senza sapere dove andranno a finire... Questo film, per certi versi, può essere visto come una sorta di trilogia con altre due pellicole, El artista e El hombre de al lado. In modi diversi, tutti e tre questi film ci mostrano l’incontro di due visioni del mondo, una popolare e una più sofisticata. In questo caso, il protagonista torna al suo pueblo natale. Arriva quindi non in un luogo estraneo, ma in un luogo che conosce, che gli appartiene. “La vera patria dell’uomo è la sua infanzia” diceva uno scrittore. Ora, però, Daniel Mantovani è un’altra persona, più raffinata: ha riflettuto molto e ha trasformato questo pueblo in una realtà letteraria, ha romanzato le sue esperienze. Ritornando in questa realtà, all’inizio non la trova tanto malvagia. Via via, però, emergono i problemi. Le sue azioni e le sue opinioni diventano sempre più controverse. Le differenze tra lui e il suo paese d’origine, quelle che lo avevano fatto andar via, si ritrovano intatte. In termini psicoanalitici, si può dire che non ha lavorato su queste differenze, e questo fa sì che i problemi si ripresentino identici...
Un aspetto interessante del film è il modo in cui è costruito il punto di vista. Intendo dire che il film non si identifica né con le persone del pueblo, né con lo scrittore, perché anche questo è egoista, talvolta incapace di empatia...
Sì, le persone del pueblo sono semplici, amabili, hanno conservato valori che si sono persi, ma a volte sono chiusi o violenti e lo scrittore, sarà anche un genio ma è anche uno che non ha saputo costruirsi una vita quotidiana soddisfacente. Anche questa direi che è una costante con gli altri film che abbiamo fatto. Cerchiamo di non essere manichei, come spesso è invece il cinema nordamericano, dove le cose sono o bianche o nere. Noi cerchiamo invece di evidenziare una problematica e di rivolgerci a degli spettatori che possano ragionare e possano anche parteggiare ora per un personaggio ora per un altro. Cerchiamo di non manipolare. È un’idea di cinema più complessa, più coinvolgente per lo spettatore. È un cinema che interpella, un cinema non prevaricante: ti presenta una problematica e la lascia al tuo giudizio.
Nel definire il personaggio dello scrittore vi siete ispirati a figure reali?
Non è ispirato a uno scrittore in particolare, ma si può dire che ci sono cose comuni a tanti scrittori. È una costante sudamericana, non solo argentina, quella dello scrittore che parte per il vecchio mondo, considerato come culla della civiltà e dell’alta cultura. C’è in tutto il Sudamerica questa idea dell’Europa come culla del sapere, di Grecia e Roma... Potrei farti il nome di Vargas Llosa per esempio, che è scrittore cosmopolita per eccellenza. O, per citare qualche argentino, Julio Cortázar, che però è precedente al boom latinoamericano, o Juan José Saer o Rodolfo Wilcock o Héctor Bianciotti, che ha finito per scrivere in francese. O Manuel Puig che era anche omosessuale: questa era stata un’altra ragione per scappare. Nello scrivere il film non potevamo però inserire questa caratteristica, perché avrebbe rischiato di semplificare le dinamiche: tutti avrebbero attribuito la fuga e l’ostilità a questa sola ragione.
Ci sono elementi del film - mi riferisco a eventuali sottintesi alla realtà sociale e politica dell’Argentina - che uno spettatore italiano potrebbe non comprendere?
Non credo. Penso che i riferimenti del film siano comprensibili a tutto il mondo. Quando il sindaco parla di Messi o del Papa, sono nomi internazionali. Sì, forse, quando nella sala d’attesa compare il ritratto di Evita Peron può darsi che uno spettatore giovane in Italia non lo colga. O forse può darsi che uno spettatore giovane nel vostro paese non sia del tutto consapevole che molti degli scrittori sudamericani venuti in Europa negli anni ‘70 lo avevano fatto per fuggire da delle dittature militari. Però, in generale, ritengo che il tipo di problematiche che il film esprime sia universale e quindi comprensibile da chiunque. Quella del sindaco, per dire, è una figura prototipica...
Io pensavo anche alla violenza che è latente nella storia (penso a quando l’amico del protagonista, al bar, prende a pugni il tizio che l’aveva guardato male, per esempio, o a certe minacce che vengono fatte al protagonista). È qualcosa che ho trovato anche nei lavori di Damián Szifron – “Relatos selvajes (Storie pazzesche)” e la serie “Los simuladores” – nei quali, sotto l’apparenza della commedia, emerge tra le righe la rappresentazione di una società estremamente violenta...
Questo è vero... In una società come quella argentina c’è molta più violenza che in Europa. Se giri per la città devi stare molto più attento che non in una città europea. In un piccolo paese questo si vede meno ma è comunque presente. C’è anche il fatto che in Argentina si beve molto, non so perché, forse per noia, forse perché si frequentano sempre gli stessi posti, e questo può indurre comportamenti violenti, come si vede nel film...
I vostri film sono frutto della collaborazione fra te, autore della sceneggiatura, e due registi, Gastón Duprat e Mariano Cohn . Mi interessava sapere come si sviluppa la collaborazione tra di voi...
Noi lavoriamo diversamente da come avviene normalmente nell’industria. Di solito, nell’industria, lo sceneggiatore scrive, viene pagato e il suo copione passa nelle mani di un regista, dopodiché, una volta che il film è realizzato, questo sceneggiatore dirà invariabilmente che il suo script era meglio di quello che ha fatto quello stronzo del regista... Non è il nostro caso. Il nostro modo di lavorare assomiglia più a quello di un gruppo rock. Ognuno ha il suo ruolo, ma tutti partecipiamo al processo creativo complessivo. Io scrivo, invio il mio lavoro a Gastón e Mariano e loro mi danno dei feedback: questo funziona, questo no, prova a sviluppare questa possibilità... E così facendo si arriva alla fine a uno script consensuale. Questa è la pre-produzione. E, secondo noi, questo dovrebbe essere il modo normale di lavorare. Perché quando si scrive una storia si pensa anche a dei luoghi, a dei volti. Il fatto che la parte del protagonista la prenda Oscar Martínez o un altro non può non avere conseguenze sul processo di scrittura. La sceneggiatura non è un’opera chiusa in sé, ma è un’opera aperta che è influenzata anche dagli attori che assumono i ruoli principali e dai luoghi in cui si svolgerà. Per esempio, per un certo momento pensavamo di realizzare il film in un pueblo del Sud, in Patagonia, un posto freddo, nevoso, tipo Fargo: se fosse stato così sarebbe cambiata anche la sceneggiatura. Le motivazioni di quel che fanno i personaggi sarebbero state diverse...
E alle riprese, tu partecipi?
Non sono presente in tutte le riprese, perché non ho il tempo e anche perché [ridendo] è un po’ noioso... Però vado spesso. Partecipo sempre al processo di montaggio. Questa è una grande differenza rispetto al modo di procedere dell’“industria”. Per me è fondamentale che lo sceneggiatore sia presente in questa fase. Cosa tagliare, cosa conservare, secondo me, è una fase del processo di scrittura...
Ci sono altri autori argentini che sentite vicini al vostro cinema?
Prima citavi Szifron, lui è sicuramente uno, per il tipo di umorismo... In generale, devo dire che lo sguardo che in Europa avete sul cinema sudamericano è un po’ limitante. L’idea che in Europa si ha del cinema sudamericano tende a considerare solo storie di miseria, di povertà. Non dico che non ci sia anche questo, ma si tratta solo di una parte del cinema che si fa in America del Sud. E l’Argentina, tra tutti i paesi del continente, è quello che più se ne allontana. Noi argentini lottiamo un po’ con questa idea eurocentrica del cinema sudamericano. Sembra che voi europei vogliate vedere solo film sudamericani che corrispondono a questo cliché. In realtà, il cinema argentino è un cinema molto più urbano, con altro tipo di problematiche. I nostri film si svolgono sempre in ambienti che conosciamo. Se parlassi di situazioni di estrema periferia, di favelas, mi sentirei un estraneo...
Quindi, ritornando agli autori, ho detto Szifron. Poi Lucrecia Martel che rappresenta un universo più provinciale (lei è di Salta), un universo diverso dal nostro, con uno sguardo più femminile. Nonostante queste differenze, è però un cinema finissimo, che sento molto vicino. Poi Santiago Mitre, è un altro.
Ci piace molto Trapero, anche se fa un cinema che non ha molto a che vedere col nostro. O poi c’è anche un cinema sociale molto interessante. Un oso rojo di Adrián Caetano, ad esempio. In questo periodo, c’è grande fermento nel cinema argentino. Ci sono molte scuole di cinema. E i risultati si vedranno soprattutto tra qualche anno. Perché, è come col calcio: se tutti lo giocano, poi esce uno come Messi...
(intervista realizzata a Venezia, il 4 settembre 2016 – un ringraziamento ad Alessandra De Luca)